Il compositore Franz Schubert scrisse più di settecento opere. Molte erano composte su pianoforte e per pianoforte, ma lui era così povero che non ne possedette mai uno. Molto spesso il talento, anche in assenza di strumenti, esce fuori prepotente come un vulcano in eruzione. Ciò che dispiace del nuovo lavoro discografico di Francesca Michielin è proprio questo grande spreco di strumenti e risorse. Il nuovo album è un immenso centro commerciale, sommerso tra le dune del deserto. Un diamante della corona di Buckingham Palace, al collo di Follettina Creation. Tanto ben fatto, tanto prezioso, tanto ricco, quanto irrilevante.
In uscita oggi per Sony Music, il nuovo album FEAT (stato di natura) è una collezione di undici featuring, frutto delle collaborazioni della cantautrice con i nomi più in vista del panorama musicale attuale. Ma già l’idea di far coesistere nello stesso album artisti del calibro di Elisa e Max Gazzé con altri del calibro invece di Fred De Palma (quello che l’estate viene riesumato con la cantante spagnola) e Coma_Cose, fa venire l’orticaria a chiunque abbia compiuto già 18 anni. Il brano che apre l’album è anche il singolo scelto per la rotazione radiofonica: Stato di natura. Un pezzo di scarsi due minuti, cucito sulla partecipazione dei Måneskin alla canzone. Le sonorità rock incontrano una Michielin inedita, che, con un notevole slancio di coraggio, si riscopre rapper. Imbracciato il flow, Francesca fa il suo esordio nel genere, scimmiottando Salmo. Il risultato è imbarazzante e andando avanti, l’album non migliora.
Il principio è quello di dare prova della versatilità della cantante classe ‘95. Si cimenta con un brano dalle tinte gospel, ma che di gospel non ha assolutamente nulla. Ma non solo; c’è spazio per il new reggae, per l’hip hop, per le sonorità balcaniche, per il folk. È apprezzabile la volontà di fare qualcosa di sperimentale e nuovo, ma evidentemente non basta farsi produrre brani di generi diversi se poi li canti tutti allo stesso identico modo. La sensazione è la solita: vorrei ma non posso. Certo, non ci aspettavamo My Heart Will Go On, ma almeno l’azzardo di cantare una nota diversa dalle solite cinque che sono eseguite a rotazione casuale per tutto l’album. Insomma, la Michielin non aveva affatto bisogno di un album di duetti. Questo genere di lavoro non è la novità che ci aveva promesso, ma il solito stratagemma dei cantanti over cinquanta di tornare in auge dopo un periodo di oblio generale. Cheyenne rimane l’unica perla, in un album che speriamo di dimenticare il prima possibile.