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Giaime non è diventato Mick Jagger, ma fa ancora rap

“Fai del tuo meglio, dimostra chi sei/Fuck rap, voglio fare come i Rolling Stones”, cantava nel 2017 sul set di Gimmi Andryx. Due anni dopo la brutta notizia è che Giaime non è diventato Mick Jagger (ma neanche Keith Richards) quella bella invece è che continua a fare rap e lo fa anche bene. «Quello era uno sfogo, ti pare che mandavo affanculo il rap?», mi dice al telefono. «Allora era un modo per dire che mi interessava fare una vita ma soprattutto una musica più rock & roll, concetto che tra l’altro è stato sdoganato due anni fa da Sfera. Che poi alla fine noi rapper siamo dei rappresentati di uno stile di vita che ricorda quello dei grandi del rock degli anni settanta». La sensasizione è che conosca molto bene le regole del rap game, d’altronde lo frequenta da quando a tredici anni registrava le rime in una recording booth di cartone: «Sì, all’inizio era tutto molto homemade poi però le cose hanno iniziato a prendere il verso giusto e con alcuni amici ho fondato la Zero2, un collettivo del quale ha fatto parte anche Lazza». Giaime, ventiquattro anni e cresciuto a Milano tra Piazzale Susa, Piola e Viale Argonne, fa un rap immediato e crede si possa far parte di questa scena anche senza un passato difficile: «Prendi Kanye West, lui non ha avuto un passato difficile ma è uno degli artisti più importanti al mondo», mi dice. «Avere un passato difficile non vuol dire soltanto criminalità, strada e droga; ogni ragazzo ha i suoi problemi, le sue ansie e i suoi traumi e nel caso di noi rapper tutto questo disagio si trasforma in arte». Ma quando gli chiedo se sente una responsabilità di quello che canta nei confronti del suo pubblico mi risponde che quando scrive l’artista non deve avere pressioni, «anche se poi nel processo di pubblicazione diventa importante capire cosa dire e cosa invece omettere». Poi fa una pausa e prende fiato: «So benissimo che molti miei colleghi la pensano diversamente ma quando si canta la vita da gangster ci si deve prendere anche la responsabilità di quello che si dice».