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I Muse dal vivo sono sinonimo di godimento

Nonostante le incertezze e la poca convinzione con cui è stato accolto dal pubblico il loro ultimo album, Simulation Theory, il concerto dei Muse non lascia spazio a critiche. D’altronde, i live dei Muse sono da sempre una certezza ed è impossibile non accorgersene. Dopo essere approdato a San Siro per ben due sere consecutive la scorsa settimana (novantamila gli spettatori totali), il Simulation Theory Tour è arrivato ieri sera in un Olimpico di Roma – pieno ma non pienissimo – dove la band inglese ha messo in atto il suo incredibile spettacolo e più che un semplice concerto. Perché sì, il nuovo show dei Muse è un’esperienza multisensoriale. Per due ore si assiste alla performance di Matthew Bellamy, che si conferma essere non solo un incredibile vocalist ma anche un dio del palcoscenico: proprio come una divinità cammina sul palco, venuto per graziare col suo talento il pubblico, vestito con giacche glitterate e occhiali di led. Interagisce poco con il pubblico («Ciao Roma», dice al termine di Psycho, il secondo brano in scaletta che arriva subito dopo Pressure) ma crea un legame immediato con chi lo guarda tramite la passione incredibile che sembra muovere ogni suo passo. Suona come in estasi mistica, canta come al solito in maniera impeccabile. La band non ha sbavature, Chris Wolstenholme e Dominic Howard non si fermano un attimo e sono coordinati alla perfezione con il loro frontman.

Dai pezzi iconici alle canzoni meno conosciute di Simulation Theory, i Muse riescono a coinvolgere il pubblico e a mantenere l’attenzione alta con una performance di una potenza rara da trovare in circolazione oggigiorno. Non si risparmiano nulla, danno al pubblico tutto il talento e la passione che hanno da dare. È un grandioso tripudio di distorsioni, assoli di chitarra e batteria, seconde voci distorte e synth. Di contorno alla bravura della band, c’è comunque una scenografia pazzesca. Non è solo l’orecchio a godere, gli occhi si riempiono di meraviglia mentre vengono bombardati di luci e laser. Sui maxischermi vengono trasmessi montaggi in diretta del pubblico e della band, tributi all’allunaggio durante Supermassive Black Hole e incredibili scene di simulazione robotica durante Propaganda. Bellamy si circonda di un gruppo di ballo vestito di tute illuminate che brandisce prima armi che sparano fumo, poi spade laser: i componenti ballano come posseduti, vengono appesi a dei fili e calati di fronte agli oltre ottocento metri quadrati di maxischermo. Insomma, sono la parte mobile di una scenografia spaziale, forse la migliore mai messa in scena dalla band di Teignmouth in quasi ventisette anni di carriera. Sulle note di Algorithm, accolto da un “Oh” generale, compare sul palco anche uno scheletro robotico (una sorta di Eddie The Head versione Muse) che allunga la mano per afferrare Matthew e spalanca la bocca come per divorarlo lasciando i quarantacinquemila increduli.

La setlist non lascia un attimo di respiro e ad ogni canzone nuova segue un pezzo iconico, uno di quelli che conoscono tutti, ma proprio tutti (tranquilli, Starlight, Madness, Time Is Running Out e Hysteria ci sono). Tutti tengono lo sguardo incollato al palco per non perdersi un secondo di quella scenografia mostruosamente bella. C’è anche un medley composto da Stockholm Syndrome, Assassin, Reapers, The Handler e New Born che arriva poco prima del gran finale sulle note di Knights of Cydonia, introdotta da Wolstenholme con un’armonica. Ventisei canzoni dopo, la sensazione è di aver assistito a un qualcosa di raro che riconferma la grandezza dei Muse. La grandezza di una band che si piega ma non si spezza.