L’ultima volta che l’abbiamo incontrato a Milano, Noel Gallagher era incazzato con il mondo. «C’è troppa noia nel mondo, nel rock, nella politica. Troppe rock band (Green Day, Queens of the Stone Age e Foo Fighters ndr.) scrivono e cantano le notizie ed è noioso», disse nel bel mezzo della presentazione del nuovo disco. Ieri sera l’ex Oasis è tornato a Milano, questa volta per presentarlo live. Pioggia lungo il viaggio per arrivare, pioggia durante la fila per entrare, pioggia all’uscita ed anche lungo la strada verso casa, ma il Fabrique era comunque pienissimo. Uno show che è stato preceduto negli scorsi mesi dal lancio del nuovo disco e dai classici battibecchi familiari col fratellino Liam, nonché dal concerto dello stesso a febbraio.
Un allestimento asciutto, nessun fronzolo. Niente schermi o effetti speciali. Noel sale sul palco con i suoi High Flying Birds e si capisce subito, dai primi pezzi suonati (Fort Knox, Holy Mountain e Keep on Reaching) dove sarebbe andato a parare questo spettacolo. Il maggiore dei Gallagher è, che ci piaccia o no, uno dei simboli del britpop che tanto ha fatto negli anni novanta. Lui stesso lo dice, con un pizzico di arroganza e spocchia. Ma ha scavallato se stesso ormai. L’implosione degli Oasis avrebbe potuto annientare qualsiasi cosa, invece lui è andato avanti. Who Built the Moon? la fa da padrone e viene suonato quasi tutto. Ma è giusto così. L’unico difetto, dovuto probabilmente alla location, è un effetto un po’ impastato del suono con la voce che a tratti quasi la assorbe. Ma qui la differenza la fanno le canzoni. Perché anche se sei freddo e non ti interessa granché empatizzare con gli astanti, è la musica a farlo per te. E tutti si sentono coinvolti, a parte qualche irriducibile del calcio che non vuole proprio rinunciare a vedere un pezzo di partita dal suo telefonino.
«C’è qualcuno qui che era fan degli Oasis?», chiede dal palco prima di suonare una fantastica Little by Little. Il cuore si fa gonfio: è uno dei miei pezzi preferiti. Prescindere dagli Oasis proprio non si può, ma non ha neppure senso guardarsi continuamente indietro. Ancora un altro pezzo degli Oasis (Don’t Look Back in Anger; ormai diventata una sorta di inno contro la paura) per poi chiudere con una versione sentita, ma quasi accademica e molto rispettosa, di uno dei classici del pop britannico: All You Need Is Love. Lunga vita ai Beatles e a tutti i loro eredi che nel tempo hanno scaldato le nostre serate. Anche questo è rock & roll ed è bene che si sappia.