Si può ballare su un disco o ad un concerto shoegaze? Ma certo – mi risponderete voi – basta fissare il pavimento oltre le scarpe e ciondolare, nel mentre ondate di feedback invadono il canale auricolare. La vostra risposta potrebbe essere giusta, ma allora io riformulo la domanda: si può ballare su un disco shoegaze come se fosse un album degli Orbital? I Bdrmm, provenienti da Hull, se lo saranno chiesti più volte e rispondono con Microtonic, beat dopo beat, chitarra dopo chitarra. I primi trenta secondi del brano d’apertura goti (sì, tutto in minuscolo) mettono in chiaro la mutazione della band, si fa largo la voce di Syd Minsky-Sargeant dei Working Men’s Club, un pulsante kick in quattro quarti e un tappeto sonoro cupissimo che graffia e respira al contempo. La produzione è cambiata e la band riesce a trasportare chi ascolta in un territorio distopico, una terra desolata, probabile/possibile metafora delle conseguenze della pandemia. “Distractions/Spasms/Terror/Death/It all happened/It all happened/There’s nothing left”.
Non c’è nemmeno il tempo di riprendersi dal colpo iniziale che parte John on the Ceiling, un pezzo che sembra quasi un invito a chiudere la serata in un club elettronico, lasciandosi alle spalle il concerto e abbandonandosi ad un aftershow fatto di suoni sperimentali e pulsazioni coinvolgenti. È con questo brano che Microtonic svela, senza riserve, la sua propensione per l’esplorazione sonora. L’album sviluppa una dualità tra il suono pulsante e ritmato di pezzi come Snares e Clarkycat (ispirata a La metamorfosi di Kafka) – dove l’influenza dei Real Lies si fonde con i toni estetici dei bdrmm – e quelli shoegaze più cari alla band, come dimostrano i brani Infinity Peaking e l’esplosiva Sat in the Heat. Questa dualità non intacca la coerenza dell’album, ma la esalta: ogni traccia rivela una nuova faccia della band, pronta a superarsi ma senza perdere la propria essenza. La tensione tra beat e melodia, tra gioia e disperazione, conferisce a Microtonic una vitalità che si esprime nelle sue sfumature elettroniche e nei momenti più intimi. Il disco, in continua evoluzione, diventa una dichiarazione di intenti: non sono più solo i suoni a evolversi, ma la band, pienamente consapevole della propria capacità di mutare.
Sebbene temi inquietanti come un futuro incerto, la dissociazione dalla realtà e una visione distorta del mondo come un brutto trip possano sembrare in contrasto con l’atmosfera vivace talvolta entusiasta dell’album, è proprio questa contraddizione a renderlo così affascinante. La gioia che traspare da ogni brano non è legata tanto ai temi affrontati, ma piuttosto all’impeto creativo con cui la band ha dato vita a Microtonic, spingendosi a esplorare nuove possibilità sonore. In questo senso, The Noose, il brano di chiusura, rappresenta una riflessione più delicata: sintetizzatori levigati, puliti e sostenuti accompagnano un momento di intimità, e anche quando Smith fa riferimento alla tragedia (“The noose already dropped, man”), si avverte un sottile senso di rinascita, come se da un “fatally flawed system” potesse emergere qualcosa di più puro, libero e vitale. Non è facile infondere vitalità in un materiale così cupo, ma la band ci riesce e forse è proprio qui che risiede la potenza di Microtonic. Non è solo un ritratto di un mondo in rovina, ma anche il tonico necessario per affrontarlo senza perdere il contatto con la realtà.