A Complete Unknown è l’attesissimo biopic che vede Timothee Chalamet interpretare Bob Dylan, icona assoluta della generazione anni Sessanta e Settanta. In lavorazione dal 2020, il film si inserisce perfettamente nel contemporaneo trend del biopic hollywoodiano: dopo la consacrazione in sala di Bohemian Rhapsody, si sono moltiplicati esempi di film biografico, a tema musicale, in cui un divo attuale si cala nei panni di un’icona del passato, ricostruendone le gesta nel modo più mimetico possibile – tra questi, A Complete Unknown anticipa un altro attesissimo progetto in lavorazione: Deliver Me from Nowhere, con Jeremy Allen White nei panni di Bruce Springsteen. Per quanto non siano mancate opere più sperimentali, come Elvis di Luhrmann o la trilogia di Larrain, biopic di questo tipo non godono di buona fama tra i cinefili: i problemi più ricorrenti sono un’eccessiva patinatura della ricostruzione storica, che limita la creatività della messa in scena, e una narrazione spesso simile all’origin story disneyana. A Complete Unknown, che segue la storia di Bob Dylan dall’arrivo a New York alla “svolta elettrica” di Highway 61, risulta nel complesso aderente ai codici del convenzionale biopic contemporaneo.
James Mangold, già regista del biopic Walk the Line su Johnny Cash, è tuttavia riuscito a creare nel film punti di grande interesse, da un punto di vista più narrativo che estetico. Per quanto sia ormai molto comune concentrarsi sul periodo ascendente del protagonista, Mangold ha avuto l’intelligenza di dividere il film in due parti analoghe, che creano un arco narrativo più articolato: la prima parte, dedicata all’ascesa di Dylan nel mondo folk, si conclude con la sua consacrazione a star, mentre la seconda, più introspettiva, segue il cambio di rotta del cantante, che decide di rompere le regole del folk per diventare un’icona musicale tout court. L’idea dell’anti-divo controcorrente, mai pacificato e sempre in cerca di nuove sfide, è il fondamento del film: nessuno come Bob Dylan, tanto defilato quanto venerato, è stato infatti capace di spiazzare in modo così tenace le aspettative del pubblico, dello star system e del mondo intero. La scelta di Chalamet come attore protagonista, punto centrale della campagna marketing del film, si rivela azzeccatissima: il giovane divo, simbolo di una mascolinità contemporanea e fluida, dà il meglio di sé quando interpreta personaggi provocatori, istrionici ma ritrosi, dai tratti adolescenziali e imprevedibili. È inoltre molto interessante la sovrapposizione tra la gen Z, principale target del film, e la generazione che negli Stati Uniti sarebbe stata protagonista del 1968.
Dopo quasi un decennio di dominio assoluto degli anni Ottanta, sembra che il cinema si stia spostando verso l’immaginario della controcultura, più adatto a veicolare tematiche care alle ultime generazioni – molto rilevante, all’interno del film, è la questione razziale, a cui Dylan si interessa grazie alla frequentazione con Sylvie, interpretata da una bravissima Elle Fanning. L’intero cast secondario, capitanato da Edward Norton, riesce a offrire performance convincenti, che restituiscono l’atmosfera e le esigenze del periodo storico trattato. Nell’arco narrativo coperto dal film (dal 1961 al 1965), il clima rivoluzionario dei tardi anni Sessanta non era ancora dominante, ma già serpeggiava in realtà specifiche come la scena musicale folk. Il principale problema con cui si interfaccia il protagonista è però la gestione della fama: personalità effettivamente misteriosa e sfuggente, nel film come nella realtà, Dylan si trova all’estremo opposto della celebrità contemporanea, caratterizzata dall’ossessione per la condivisione e l’autopromozione. Proprio per questo motivo, il pubblico non può non rimanere affascinato da una figura come quella di Bob Dylan, in continuo conflitto con l’immagine di sé che il mondo cerca di cucirgli addosso.6