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Ghemon – Ora o mai più

«Il miracolo della presenza mentale esiste», e lo dimostra con “Una cosetta così”, un disco che mescola musica e stand-up comedy. Ghemon ci parla di salute mentale, rischi creativi e vita vera: «Era il mio ora o mai più»

«Il miracolo della presenza mentale esiste». Inizia più o meno così la mia chiacchierata con Ghemon, intento a preparare le valige. Fortuna che ormai siamo tutti multitasking. La presenza mentale di Ghemon c’è eccome e lo scoprirete addentrandovi nell’intervista, realizzata in occasione dell’uscita di Una cosetta così, il suo nuovo album tra stand-up comedy e musica. Un progetto da cui emerge la grande profondità, umana e artistica, di Ghemon, capace di far ridere (davvero), ma anche di far riflettere. E sono tante le riflessioni che abbiamo fatto con lui, dalla salute mentale al rap, da Sanremo al rapporto con i genitori che forse ci vogliono più stabili che felici.

Sembrerà una domanda banale, ma da dov’è nata l’esigenza di realizzare questo disco?
Nella stand-up le due cose sono connaturate, è più una novità magari per l’Italia, nonostante anche qui stia diventando sempre più importante. Discograficamente non è una forma che ha tradizione, questo è vero. Io, da appassionato di questa forma d’arte, ho voluto mettere il carico.

In che senso?
Volevo puntare su questo disco, non volevo fosse un piccolo oggetto per i fan e basta, ma che facesse da cassa di risonanza a un’idea che era con me da tanto, avendo iniziato le prime prove nel 2018. Una cosa però è uscire di casa e provare un open mic, un’altra è decidere che vita e carriera devono andare in quella direzione. Ci è voluto un po’ di tempo, nella fantasia il coraggio non mi mancava, ma non c’era da parte di chi avevo intorno. Gli altri tendono sempre a essere conservativi, soprattutto quelli che ti vogliono bene e lavorano con te. Questo era un rischio importante per la mia carriera e l’ho fatto per esigenza espressiva e necessità di utilizzare la mia comicità che rischiava di rimanere relegata solo a dei tweet. Mi sembrava un esercizio di stile un po’ fine a se stesso.

E per quanto riguarda la musica?
Volevo darle di nuovo la possibilità di essere per me un territorio di riscoperta, anche dopo vent’anni, e di uscire senza sottostare ai tempi discografici, delle playlist, dove se aspetti come ho aspettato io sembri seppellito. Era un po’ il mio “ora o mai più”. O lo faccio adesso, oppure non so come ci potrei tornare in maniera credibile.

Beh, con più di settanta date direi che è stata una sfida vinta. C’è stata una data in particolare di cui hai un ricordo forte?
Ce ne sono diverse, credimi, perché ci sono stati vari click durante le date, soprattutto in quelle in cui le cose non andavano per il verso giusto, perché scendevo e non ero emozionato, contento, oppure il pubblico era stato quieto. Può succedere.

E quando è successo?
C’è stato un episodio, forse una delle prime date estive più difficoltose, perché era al mare, all’aperto. Una scelta rischiosa, perché all’aperto ci sono tante distrazioni, rumore, e quel genere di comicità vive nei posti chiusi, c’è una certa liturgia del luogo. Evidentemente il pubblico che c’era non ha ben capito cosa avrebbe visto, ed era molto alto d’età, quindi ho faticato ad andare avanti. Sono arrivato in fondo anche se a metà spettacolo una signora mi ha urlato «basta, canta!». Quando succedono queste cose, soprattutto se sei all’inizio, pensi “cosa faccio?”. Sono andato dritto, fino in fondo, e poi mi sono preso i complimenti di chi era rimasto a sentire, dall’inizio alla fine, quello che avevo da dire.

Nel tuo spettacolo affronti tante tematiche. In particolare, di salute mentale tu hai sempre parlato, sei stato uno dei primi, come dici anche tu, non per farci dei soldi. Trovo molto vero quello che hai detto: andare a vedere uno spettacolo di stand-up mette chi è in una condizione di malessere a rivedersi e magari trovare un po’ di leggerezza.
A me la stand-up ha fatto questo. Mi è capitato di trovare degli appunti del mio vecchio libro dove parlavo proprio dell’effetto che, nel periodo di depressione, mi ha fatto guardare tanta stand-up. Non mi faceva solo ridere, non lo banalizzare così, perché c’è tutto un linguaggio diretto, viscerale e dark che va compreso. Nello spettacolo faccio una battuta sulla morte dei miei nonni, e la prima volta l’ho fatta a tavola con i miei genitori.

Ghemon, foto di Danijel Cvijic

Loro cosa ti hanno detto?
Mi hanno incoraggiato a farla nello spettacolo perché è la giusta maniera per sdrammatizzare, secondo tutti noi, un’esperienza tutt’altro che felice. Io questa cosa già l’avevo dentro, fa parte di me, lo facevo già in privato per esorcizzare le cose difficili. Per me al netto della battuta stessa e del pensiero espresso è comunque una maniera molto terapeutica di parlare delle cose ad alta voce.

C’è una cosa che mi ha fatto molto ridere e purtroppo l’ho trovata molto vera: quando parli dei giornalisti dici «per far capire agli altri il giornalista cerca di metterti in una scatoletta e procedere per paragoni».
Ed è per ciò che faccio la battuta su Geolier. Prendo uno stereotipo di banalità che è stato portato avanti fin quando il dialetto napoletano non è diventato cool. Lo prendo, lo sfrutto, per dire: anche con me non ci hanno azzeccato per niente. Mi rendo conto, dall’altro lato, che per spiegare alle persone cose per cui non ci sono troppi altri riferimenti bisogna cercare di creare piccoli paragoni, perché le persone hanno bisogno delle etichette.

Userò un termine che forse non troverai corretto, ma quando parli di rap racconti di averlo abbandonato poco prima che esplodesse. Te ne penti in qualche modo?
No, mai e poi mai, perché il rap è rimasto con me tanto quanto prima, nella quotidianità, come artista e ascoltatore. Nel mio Sanremo di Rose viola, nella serata dei duetti, ho riscritto la seconda strofa dove rappavo totalmente. E Momento perfetto è un brano con le metriche del rap senza autotune. Non mi sono mai pentito di essere uscito da quella fetta di mercato e basta, perché probabilmente avrei dovuto fare un sacco di scelte obbligate, tanto stereotipate. Avrei dovuto avere un ruolo che non volevo avere, quello del rapper riflessivo e buono. Viviamo in una società mega giovanilistica, quindi avrei dovuto capire come nascondere i capelli bianchi, rasarmi ai lati. Il rap è dentro di me, se uno vuole lo trova ed è anche molto più vicino all’origine, coerente con quello che è veramente.

A Sanremo ci torneresti?
Non mi metto contro i detti (ride, ndr.). Se si dice “non c’è due senza tre” un motivo ci sarà. Ma se ti devo dire che vedo Sanremo nel prossimo futuro, che debba scrivere qualcosa che devo poi per mesi non sapere se la prenderanno o no, se andrà bene o no, ma non ci penso proprio. Non perché non ho voglia di rischiare, lo faccio tutti i giorni, ma uno delle volte deve sapere quello che fa e a chi si vuole rivolgere. A Sanremo contano tantissimi fattori e trovo che per quello che faccio potrei venire frainteso o non verrebbe fuori bene quello che ho cercato di fare, la ricerca, e quindi può darsi che non sia il posto giusto. Con questo, se avrò la canzone giusta e non qualcosa di scritto apposta, come già capitato, potrebbe ricapitare perché no.

Ho apprezzato molto il rapporto che sembra emergere con i tuoi genitori. Ad un certo punto dici una cosa che mi ha toccato molto: «Molti genitori preferiscono la stabilità alla felicità». È una di quelle cose che pensi, ma quando lo senti detto da qualcun altro dici “caspita, è vero”. C’è molto il binomio “se sei stabile la felicità arriva”.
Probabilmente tu non vedi che quello che stai facendo non ti porterà alla felicità. Ma chi può dirlo? È ovvio che ci sono diversi passaggi in cui se posso trovare questo genere di affondo, più intenso, dove lascio qualcosa, ho cercato di farlo. Ho pensato “devo pure delle cose”, quelle che non dirò mai nelle canzoni, ma devo parlarne perché secondo me la mia storia è anche quella di tutti gli altri. Non ho bisogno di far finta che mi sono innamorato di qualcuno, devo parlare delle cose che mi stanno veramente succedendo nella vita e riderci, perché stanno succedendo anche agli altri. È questo il motivo per cui ho fatto lo spettacolo.