Partiamo da un presupposto: A cosa servono i grattacieli non è solo una canzone. È una pausa. Una di quelle che raramente ci concediamo. Una di quelle, tuttavia, profondamente necessarie. In altre parole è il momento in cui Deci ci porta in cima al mondo e ci dice: guarda, respira, pensa. Se non lo facciamo noi, chi lo farà per noi? Perché a volte basta una canzone per fermarci a riflettere, anche se le vite ritmate che caratterizzano la nostra epoca sembrano non lasciare posto a battiti brachicardici. Eppure ce lo ripetiamo, ancora e ancora senza essere in grado di metterlo in pratica. Ma stavolta l’ho fatto e invito anche voi a provarci. Un brano come A cosa servono i grattacieli, ve lo garantisco, è sufficiente a farci sentire, anche solo per cinque minuti e trentatré secondi, come se fossimo in cima ad uno di quei colossi di cemento e vetro, finalmente liberi di guardare il mondo dall’alto, senza il peso dell’asfalto che ci stringe il collo.
E se pure 5:33 sia un minutaggio tutt’altro che in linea con la contemporaneità, è evidente che una volta entrati nel vortice si finisce inevitabilmente per chiederne ancora, entrando in un loop virtuoso, come lo stupendo codone del brano (punto più interessante dell’intera traccia) in cui si sovrappongono, confondendosi ed intrecciandosi, linee vocali diverse, diventando un’unica cosa. Bellissima. Inizialmente è tutto intellegibile e separato, come una goccia d’olio in un bicchier d’acqua, ma a mano a mano che il ritmo cresce e lo spazio si dilata, gli opposti non solo si attraggono ma diventano una entità nuova. L’atmosfera è sognante, sì, ma non è il tipo di sogno che ti culla – è più uno di quelli che ti scuote, che ti costringe a cambiare prospettiva. Il sound sintetico e minimalista crea uno spazio sospeso, quasi irreale, dove il mantra “Aria, aria, respira, respira” diventa qualcosa di più di un invito: è a tutti gli effetti un bisogno. E poi c’è quel passaggio. “A cosa servono i grattacieli, a buttarsi o fare un grande salto?” è una domanda che non puoi ignorare. È come se Deci ci chiedesse di guardare le cose da una prospettiva più alta, di mettere in pausa per un attimo le nostre corse quotidiane e chiederci se stiamo davvero correndo nella direzione giusta.
Non c’è nulla di superfluo (seppur l’elettronica porti in scena molti elementi che via via arricchiscono l’arrangiamento) eppure ogni dettaglio conta, eccome: i sintetizzatori sono come correnti d’aria che ti sollevano e ti portano più in alto, mentre la voce di Deci sembra quasi fragile, come quella di qualcuno che sta ancora cercando di capire dove si trova, prima di esplodere. Ed è proprio questa fragilità a rendere il tutto così umano, così vicino e a rendere quel contrasto che brilla nei ritornelli ancora più potente. E poi arriviamo al video. Mi sono ritrovato ipnotizzato dal contrasto tra la danza fluida di Luca d’Amato e la rigidità di Andrea Simonetti. È un dialogo antitetico e silenzioso ma potentissimo, che amplifica il messaggio del brano: quella lotta continua tra dovere e libertà, tra ciò che ci stringe e ciò che ci libera.