Il Circo Massimo sembra sospeso nel tempo. La nebbia lascia appena intravedere l’Altare della Patria sullo sfondo, mentre le mura sembrano respirare con la stessa lentezza e precisione con cui David Gilmour esegue quella 5 A.M. che apre il concerto. Diciamocela tutta: in molti abbiamo temuto che l’ultima delle sei date romane potesse saltare, ma la pioggia, caduta per tutta la giornata, si ferma quasi miracolosamente all’inizio dello show, per riprendere sulle ultime note di Comfortably Numb. Le quasi tre ore nel mezzo non sono solo un concerto, ma una sorta di cerimonia, un rito laico scandito da brani che hanno segnato almeno tre diverse generazioni. Vedere Gilmour oggi è come ammirare un quadro di Turner: malinconico, sfocato ma incredibilmente potente. C’è, però, una differenza sostanziale rispetto ai suoi live precedenti: stavolta aleggia nell’aria una malinconia palpabile, quasi un senso di addio. Forse è l’età che si fa sentire – Gilmour ne compirà settantanove il prossimo marzo – o forse è semplicemente il modo in cui il suono della sua Stratocaster riesce ancora a esprimere quel senso di vuoto che lo accompagna da sempre.
Non è una setlist per occasionali: da una parte ci sono tanti classici dei Pink Floyd – nella prima parte si susseguono Breathe (In the Air), Time, Fat Old Sun, Marooned, Wish You Were Here, Between Two Points, High Hopes – ma c’è anche molto Gilmour solista e soprattutto quello dell’ultimo disco, Luck and Strange. Perché se il passato resta lì, sulla spalla destra, è anche vero che è con il presente che un artista si esprime meglio. E poi c’è il suo tocco inconfondibile ormai un marchio di fabbrica, ancora presente e vivo; la sua essenza non è mai stata così pura. È un po’ come ascoltare Miles Davis o John Coltrane: non importa quante volte si ascolti Kind of Blue o A Love Supreme, ogni volta si scopre qualcosa di nuovo, un dettaglio che prima sfuggiva, un’inflessione che rende il tutto più profondo. Ma, rispetto al Gilmour dei decenni passati, oggi c’è un differente approccio. Se in passato c’era un’urgenza espressiva, un desiderio di spingere oltre i confini della musica, oggi Gilmour sembra più concentrato sull’esplorazione dell’interiorità. Il suo modo di suonare è diventato più riflessivo, come se cercasse di trovare un significato più profondo nel suo stesso viaggio musicale.
Il ritorno sul palco per la seconda parte è con Sorrow e The Piper’s Call, una sorta di richiamo al passato che si fa sempre più distante, ma che nel presente trova nuova linfa. E poi, A Great Day for Freedom, con la sua melodia carica di speranza e malinconia, sembra parlare del passato e del futuro, di vittorie e perdite, personali e collettive. Ma è con A Boat Lies Waiting, tratta da Rattle That Lock, che Gilmour si scopre del tutto in una performance solenne. Il brano, una riflessione intima sulla perdita e sul tempo che fugge, sembra quasi un addio. Non mancano Dark and Velvet Nights, Sings, Scattered, tutte tratte dall’ultimo Luck and Strange, a sottolineare ancora una volta, che, pur celebrando i Pink Floyd, oggi David Gilmour è anche molto di più. L’ultimo regalo è Comfortably Numb. La pioggia riprende a cadere: la magia è durata abbastanza, ma ora è tempo di chiudere il sipario.