Siamo nella Loggia Nera: i tendaggi rosso sangue rivestono il perimetro della stanza e il pattern seghettato a terra sostiene il peso di un nano e un agente di polizia seduti su poltrone scure. Alle spalle ci sono una statua in marmo e delle lampade. Arriva Laura Palmer e dice: “Hello, Agent Cooper. I’ll see you again in 25 years”. Non chiudete l’articolo, si parlerà presto di ciò che avete letto nel titolo, ma essendoci una linea che connette la poetica visiva dell’incubo di Lynch e quella sonora dei Cure, tanto vale fare uso di una delle scene più iconiche della serialità per parlarvi di un ritorno che attendiamo da sedici lunghi anni. Il fatto è che, mentre Laura aveva effettivamente spoilerato il futuro a Dale, Robert Smith non ci aveva lasciato grossi indizi per strada quando 4:13 Dream aveva suonato l’ultima nota. Ora: quando si concretizzano ritorni così attesi, il rischio di macchiare la storia, di ritrovare i propri beniamini irrimediabilmente invecchiati fuori ma soprattutto dentro, è quantomeno una ipotesi da mettere in conto.
Ed è per questo che un amante di Robert Smith come il sottoscritto, quando oggi ha premuto il triangolino del play su Spotify per ascoltare Alone (il primo singolo estratto da Songs Of a Lost World – album in uscita il prossimo 1 novembre) non ha potuto fare a meno di assumere lo stato mimico-facciale di chi prega solo che nulla sia cambiato in peggio. La verità? Ecco, la verità è che Alone non è solo un brano in grado di ricalcare fedelmente tutto ciò che il manifesto dei Cure recita dagli esordi – peraltro senza mai risultare macchiettistico – ma addirittura offre una certa rinnovata lucentezza (o forse è meglio dire “cupezza”) che mi riporta subito alle atmosfere dei dischi più geniali della band. Intro lunghissima, dove il ritmo la fa da padrone grazie soprattutto a quella batteria forsennata e al contempo ipnotica che è quasi un marchio registrato di Smith e soci. Poi arrivano i pad eterei, che creano tappeti morbidi e misteriosi su cui si appoggia un riff di chitarra distorto che dialoga con i vuoti come in un botta e risposta telefonico. Infine, a tre e ventidue, si manifesta la componente umana, attraverso una voce non rarefatta come a volte ci ha abituato la discografia dei Cure, ma nitida, dal tono perentorio e al contempo disperato: “This is the end/Of every song that we sing”.
L’integrale epicità di Disintegration esiste ancora, dunque, ed ha senso d’esistere anche nel 2024, al contrario di come qualcuno forse aveva creduto. Perché è evidente che cullarsi sulle onde morbide della comfort zone, rievocare i ricordi di battaglie musicali combattute (e vinte) più di cinquant’anni fa è roba da boomer. Ma se quel che sentirete voi, come me, è la pasta propria dei grandi inni generazionali, e se Alone è davvero il preludio di una guerra che è ancora necessario combattere, allora qui di bieco effetto nostalgia non v’è traccia. Credo semplicemente che, oggi molto più che allora, la lotta all’effimero, al superficiale, alla tiktokizzazione dei prodotti musicali, debba essere rilevante e temo sia ancora necessario scendere in trincea col rischio di perdere qualcosa. La buona notizia? Che tra i nostri alleati c’è chi quella stessa battaglia l’ha combattuta e sa da sempre come vincerla. E malgrado gli anni che passano e gli zeri sul conto che aumentano, lo smalto è quello di sempre. Il tormento, pure.