Tra gli autori contemporanei della sfera letteraria che più ho amato c’è senza alcun dubbio David Foster Wallace. A prescindere dall’inevitabile attrazione che può causare il suo percorso biografico, giunto all’epilogo infelice che tutti conosciamo, ciò che mi ha ispirato di più della sua opera è la trasparenza con cui ha parlato di cose che conosceva poco, o affatto, coinvolgendo i lettori nel suo percorso di approfondimento della materia. Ci vuole coraggio, ad esempio, a parlare per pagine e pagine di aragoste, o di Roger Federer, senza esserne un esperto verticale. Negli scritti di Wallace, la protagonista è sempre la scoperta. Ad ogni modo, il primo incontro tra la sua testa ed i miei occhi si è concretizzata attraverso la triangolazione con Una cosa divertente che non farò mai più, in cui raccontava, sotto retribuzione ma con disarmante onestà, del suo primo viaggio all’interno di una nave da crociera. Ora: io il jazz l’ho sempre profondamente amato, vi ho sempre riconosciuto all’interno qualcosa di più grande rispetto agli altri generi, figuratevi che nel tempo ho persino trovato il coraggio di acquistare qualche vinile.
Dico “coraggio” perché il jazz è anche un genere molto elitario, esclusivo e complesso. Ed è proprio per questo che quando mi hanno proposto di ascoltare ed eventualmente recensire i lavori e la poetica musicale di Nicola Guida ho creduto opportuno, per il bene e nel rispetto di tutti, declinare gentilmente attraverso quelle mail che fanno credere al destinatario di aver avuto un sì anche se di fatto contengono un no. Quello della cordialità è il super potere che preferisco. Poi però ho pensato a Wallace (nessun paragone, mica sono matto) e mi sono deciso ad ascoltare qualcosa online di questo artista italiano di cui da tempo sento parlare molto bene, riservandomi comunque di poter fare un passo indietro in qualsiasi momento se non mi fossi sentito all’altezza. Ovviamente, se siete qui, conoscete l’epilogo delle mie elucubrazioni mentali. Ebbene, ciò che ho scoperto di Nicola Guida è che si è laureato in Filosofia e poi in pianoforte Jazz e che i brani del suo album Speleology sono come delle grandi bolle piene d’aria. Non voglio dire che siano vuote, ma piuttosto che lo spazio dei rumori che si insinua tra i suoni gioca un ruolo fondamentale. Ci fluttuano, all’interno della musica di Guida, tutte le sfumature dell’ambiente che ospita le sue incisioni, come anche il tocco felpato sul pianoforte che genera spazio attorno a sè.
Ci sono poi anche decine di episodi di elettronica lo-fi che rendono il suo lavoro se possibile ancora più moderno e ricco di suggestioni. Perché il jazz sta vivendo un momento particolare, certo, ma è anche vero che è un approccio prima ancora che un genere e per questo può vivere anche in altri paesaggi di idee, in altri paesaggi di suoni. Guida comunque non è qualcos’altro che si contamina di jazz – è piuttosto il jazz alla sua ennesima potenza, tanto da traboccare e incontrare il mondo fuori dalla bottiglia. E non è una questione di stilemi, di armonie sofisticate o di tempi sincopati. Non è neanche una questione meramente legata allo swing dell’esecuzione. È proprio una questione di pasta sonora. Ma seppure i perimetri entro cui il jazz si esprime siano pressoché infiniti, Nicola Guida sente persino il desiderio di andare oltre, contaminando la sua palette con nuance di ambient poroso e consistente. Questo lo rende unico e potenzialmente inconfondibile. Ma torniamo un attimo nei confini di casa mia, entro le cose che conosco meglio. Ebbene, andando a curiosare nella cartella stampa, ho anche scoperto che si esibirà a Roma assieme a Contour – che ha una pasta molto più hip-hop, sfiorando persino i mondi immaginati da artisti come Tyler, The Creator e lo stesso Kendrick Lamar, oltre che Gambino.
A tal proposito non possiamo non menzionare l’importanza del jazz nel sampling, tecnica che ha permesso al novanta per cento dei capolavori hip-hop contemporanei di nascere (penso proprio a To Pimp a Butterfly di Lamar). Tra l’altro in quel disco c’è una serie di passaggi che cita Piero Piccioni, che è anche la struttura basale della cultura jazzistica di Contour e Guida. Quest’ultimo l’ha campionato persino nel suo brano Come Inside con Karnival Kid, tanto forte era il desiderio di sfiorarlo anche solo per quattro minuti e quarantatré secondi con le linee concentriche ed uniche dei propri polpastrelli. Ad ogni modo Contour e Nicola Guida prendono il jazz come pretesto per volare oltre, e devo dire che immaginare una esibizione live così eclettica, come promette d’essere quella inserita nel cartellone estivo della Casa del Jazz, mi intriga non poco – tanto che credo alla fine vi parteciperò. Se dunque Wallace ci parlava di una cosa divertente che non avrebbe fatto più, io credo invece che nel mondo di Nicola Guida tornerò presto, precisamente il 26 luglio, a Roma.