Dopo il grande successo di critica e di pubblico ottenuto con Povere creature!, Leone d’Oro al Festival di Venezia e vincitore di quattro premi Oscar, Yorgos Lanthimos torna alle origini, collaborando con Efthymis Filippou (Dogtooth e Il sacrificio del cervo sacro) e realizzando un film respingente e anti-commerciale. La presenza di star del calibro di Willem Dafoe, Jesse Plemons, Margaret Qualley e Emma Stone (qui alla sua terza collaborazione consecutiva con il regista greco) non deve trarre in inganno lo spettatore, questa volta costretto a fare i conti con un’opera radicalmente autoriale, appesantita dalla durata monstre di due ore e quarantacinque minuti. Kinds of Kindness presenta una struttura antologica, suddivisa in tre episodi, accomunati dai volti attoriali (in ruoli volta per volta diversi), ma anche dal solito disprezzo per l’uomo contemporaneo, qui alle prese con tre aspetti cruciali della sua esistenza: il lavoro, il matrimonio, la fede.
Ciascuna delle tre tematiche viene messa in scena con un’esasperazione grottesca e ai limiti del caricaturale, tutt’altro che inedita nel cinema di Lanthimos. La semantica anticapitalista e antiborghese appare infatti rinvenibile in quasi tutta la sua filmografia e se in The Lobster il regista greco aveva già affrontato i paradossi della vita di coppia, ne Il sacrificio del cervo sacro si era già concentrato sul controverso rapporto tra scienza e divino. Insomma, nulla di nuovo. E, almeno sulla carta, nemmeno nulla di male, se si considera che è naturale per un autore mettere in scena sempre le solite ossessioni. Il problema di Kinds of Kindness risiede tuttavia nella ridondanza, non tanto tematica, quanto piuttosto espositiva: la sceneggiatura tende infatti a reiterare nell’arco di ogni episodio concetti già chiari, alzando progressivamente il livello della provocazione, ma badando più al sensazionalismo, che alla sostanza. Inoltre, se i primi due racconti mostrano una certa compiutezza narrativa, il terzo appare fin troppo confuso, trovando una quadra solo in un finale che è sì metacinematografico (l’unico possibile deus ex machina è il regista, l’unica religione tangibile è quella cinefila), ma anche pericolosamente autocompiaciuto.
Un vero peccato, soprattutto se si considera che, messi da parte i barocchi virtuosismi di La favorita e Povere creature! (uno su tutti: la fish-eye camera), la regia era tornata a farsi più rigorosa, asettica e distaccata, guardando i personaggi in modo cinico e clinico (l’ospedale è un’altra costante dei tre episodi), senza consentire allo spettatore alcuna immedesimazione con le dinamiche a cui sta assistendo, pur facendone suo malgrado parte. In definitiva, Kinds of Kindness rappresenta un’opera minore di un grande regista contemporaneo, ancora una volta capace di mettere in scena il potere, il sesso e la morte (cosa che fanno ormai in pochissimi), sebbene nell’ambito di uno schema che patisce lungaggini, ridondanze, sensazionalismi e autocompiacimenti di cui sarebbe il caso di fare a meno.