dark mode light mode Search Menu
Search

Uno, nessuno, centomila Childish Gambino

Childish Gambino fa con la sua musica quello che Jean Michel Basquiat faceva con la sua arte: letteralmente, il cazzo che gli pare. E ci tiene a sottolinearlo anche nel suo ultimo, definitivo, lavoro: “Atavista”

C’è una regola mai scritta e mai enunciata tra gli artisti: l’alter ego può tutto quello che la persona, intesa in una dimensione fisica, non può. La magia è proprio lì, in quel nome che non corrisponde al proprio, con il quale, da un momento all’altro, tutto diventa possibile. Che l’alter ego di un artista sia esso stesso l’artista non possiamo saperlo, certo è che Childish Gambino ha regalato a Donald Glover, nome di battesimo, altri mille mondi in cui vivere e altre duemila nuove prospettive da cui guardare il mondo. Che un Donald e un Childish abitino lo stesso corpo è difficile da accettare, per la grandezza artistica di entrambi. Che Childish sia un’unica persona, invece, è quasi surreale. Sì, il preambolo era facilmente scansabile servendosi di due semplici concetti: Childish Gambino è tante persone in una. Childish Gambino fa con la sua musica quello che Jean Michel Basquiat faceva con la sua arte: letteralmente, il cazzo che gli pare. E ci tiene a sottolinearlo anche nel suo ultimo, definitivo, lavoro. Atavista è la sua ultima opera, la bella copia (nel vero senso della parola) di 3.15.20. La versione definitiva con qualche lucidata qua e là e l’aggiunta di due brani inediti.

Arrivati a questo punto, dati i giusti presupposti, in chi scrive sorge il bisogno impellente di prendere in prestito, senza chiedere il permesso, una metafora di pirandelliana concezione. Non si può fare altrimenti nel tentativo di districarsi tra gli stretti cunicoli di questo labirinto che porta il nome di Atavista. Ancora una volta, ne abbiamo la dimostrazione, di Childish c’è n’è uno, poi nessuno, poi centomila. Uno perché in Atavista, Childish ci sbatte in faccia la realtà nuda e cruda: “Come me nessun altro, come me soltanto io”. E non ci resta che chinare la testa e accettarlo, questa musica è di una persona sola e non potrebbe essere altrimenti. Difficile pensare come la varietà di stili e contenuti possa rendere così riconoscibile un artista, ma questo è. In un momento storico e discografico in cui l’identità artistica la sedimenti con la coerenza, Childish ci urla il contrario. E ha ragione. Nessuno (e qui il tasto dolente) perché Atavista è tanto, a tratti troppo. La bramosia di distaccarsi da qualsiasi tipo di etichetta convenzionale sfoca l’ascolto. Si perde di vista Childish in alcuni passaggi, lo si ritrova prorompente in altri. Per compensare l’atipicità con una sana dose di piaggeria nei confronti dell’industria, si perde dietro ad alcune tracce dalle sonorità grevemente pop, a tratti scontate e ruffiane. Nel tentativo di essere tutti, Childish diventa nessuno. E riporta tra noi comuni mortali un disco che, altrimenti, sarebbe troppo perfetto.

Perché centomila? Ci risponde il disco. L’artista californiano rappa in Algorhythm e Psilocybae, fa un soul straordinariamente black in Sweet Thang e The Violence, indossa i panni della pop star glam in Time con Ariana Grande e in To Be Hunted. Perché no, ci aggiunge anche un pizzico di modern country con Little Foot Big Foot. Signori giudici, l’arringa è terminata, le prove sono sul banco: Childish Gambino sa come si diventa centomila e forse anche qualcuno in più. Dulcis in fundo, la produzione è di magistrale fattura. Potente, elettronica, corale. Sfrutta il silenzio come sfrutta il suono e dona a entrambi la stessa efficacia. Ti catapulta dentro il labirinto e ti risputa fuori con veemenza. Il vero fiore all’occhiello. Ascoltare Atavista vi darà l’illusione di conoscere a fondo Childish Gambino. È qui la trappola. Alla fine non l’avrete mai conosciuto per davvero, perché può essere uno, nessuno e centomila.