Mentre sto per incontrare l’intervistato, dal fondo della stanza arriva il suono di un pianoforte leggermente scordato. È un Re maggiore l’accordo che riempie l’aria, forse con la settima. Non vedo in faccia il ragazzo che sposta le mani sui tasti neri e sui tasti bianchi, ma anche di spalle la silhouette, il cappello scuro a tesa larga e la postura sono inconfondibili. Devo dirvi che per chi ha la mia età, Vasco Brondi è una specie di semidio: tutti – in particolare i nichilisti col cocktail in mano – sognavano di essere famosi come Vasco Brondi. Perché in effetti è uno che a tredici anni lo ascolti in modo talmente fazioso, dogmatico e fanatico che per certi versi è quasi impossibile avere un benché minimo senso critico. Ad oggi, mosso dall’onestà intellettuale che il ruolo di intervistatore mi impone (e anche da un pizzico di cinismo che inizia prepotentemente a far capolino) è quasi impossibile non connotare quell’amore cresciuto tra i banchi del liceo di provincia come jihadista. Perché Brondi è un fuoriclasse nella scrittura, questo è evidente, ma quelli come noi quando condividevano con l’amico sul pullman la cuffietta con la L o quella con la R, ad essere onesti, non gli hanno mai contestato un singolo verso, figuriamoci un brano o un disco.
L’idea dunque è quella di presentarmi, munirmi di tutte le doti da super partes di cui dispongo e cercare di ignorare il fatto che Vasco per il sottoscritto sia stato un intoccabile per almeno dieci dei quindici anni di onorata carriera di ascoltatore seriale de Le Luci Della Centrale Elettrica. Spoiler: alla fine non ci riesco. Perché c’è solo una cosa che in fin dei conti supera la penna di Vasco Brondi: la sua splendida mente. Che poi a pensarci bene sono quasi la stessa cosa. E io quella mente e quella penna voglio assolutamente incontrarle. Gli chiedo della cover del disco, che lo ritrae in uno scatto a lunga esposizione con in mano un fascio di luce che disegna un cerchio quasi perfetto. «Non ci crederai ma è stato se non il primo, uno dei primi tentativi. Evidentemente è molto più facile di quel che sembri», mi risponde. Mentre lo dice, anche lui un po’ stupefatto della cosa, mima il gesto con cui ha costruito quella bella circonferenza bianca su sfondo rosso fragola. «Non avevamo assolutamente idea che quello scatto potesse diventare la copertina del disco, ma poi ad un certo punto ho sentito che forse era il più rappresentativo possibile. Perché vedi, le canzoni sono come fuochi nella notte e dunque, appunto, dei segni di vita o di luce in grado di illuminare anche i momenti più oscuri della vita. Le canzoni degli altri per me sono sempre stati dei talismani, ad esempio».
Gli chiedo quanti cerchi (canzoni ndr.) ha fatto e scartato prima di arrivare ad un risultato bello tondo. «È stata una gestazione lunga durata tre anni. Un lavoro che parte in modo totalmente incontrollato – pensa che dopo tutti questi anni ancora non ho capito di quali fasi si componga questo momento di genesi musicale. Il raziocinio emerge successivamente, quando si lavora sui dettagli in modo artigianale fino a raggiungere una forma soddisfacente. Ormai non faccio più dischi con l’idea di andare in una determinata direzione. Su Illumina tutto c’è un passaggio che dice: “Non decidi tu cosa desiderare” e infatti ormai scrivo canzoni con la consapevolezza che capirò cosa era importante per me solo a posteriori. Forse le cose più importanti per noi non le decide il nostro io realmente, ma un’altra parte della nostra esistenza». Spiega che Un segno di vita è molto più simile agli album di quindi anni fa, piuttosto che al predecessore, che addirittura considera agli antipodi. Quel cerchio in copertina finisce quindi per rappresentare anche il cambiamento che conduce al punto di partenza ma con nuovo slancio e consapevolezze. «È stato difficile lavorare a questo disco perché ho dovuto asciugare al massimo testi e musiche per raggiungere la forma canzone più sintetica e primordiale possibile – cosa che non avevo provato a fare nel precedente. Mi sono ispirato ai grandi cantautori, a Battiato, Dalla e De Andrè, perché avevo voglia di lavorare per sottrazione».
Infatti tu sei uno di quelli che danno la sensazione di scrivere pagine e pagine in prosa anziché dei testi già pronti ad essere messi in musica. Pensa che Lou Reed diceva che non è così diverso scrivere un romanzo o una canzone.
In effetti è difficile capire dove inizia una cosa e ne finisce un’altra. L’unica sostanziale differenza risiede nel ruolo della musica e della musicalità in generale con cui escono le parole. Questo De Andrè lo aveva capito perfettamente perché diceva: “La musica per me è sempre stata un tram che porta in giro le parole”. Questo non sminuisce le parole, semmai valorizza la musica poiché permette loro di arrivare a destinazione. I miei testi, ad esempio, non sarebbero potuti diventare di successo se fossero stati inseriti in un libro di poesie. Con la musica invece hanno potuto raccogliere un certo riscontro.
È una questione di sintesi, oltre che di musicalità?
Sì, senza dubbio. Alcuni brani sono nati come dei racconti di qualche decina di pagine. Se non proprio racconti, quantomeno dei poemi – ed è il caso ad esempio di Chitarra nera che infatti poi è rimasto una specie di monologo. C’è comunque un momento in cui capisco se una cosa possa effettivamente diventare una canzone oppure se andrà a finire da un’altra parte, nascendo come qualcosa di diverso. Poi col tempo ho condensato i concetti in poche parole. Perché vedi a scrivere molto ci vuole poco, lo diceva anche Pascal. In una sua lettera tratta da Le Provinciali che rileggevo qualche giorno fa scriveva: “Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve”. Sempre in merito al togliere, ho letto che un processo devastante nel mondo del cinema riguarda il montaggio. Tantissimi contenuti anche molto belli vengono tagliati via perché non funzionali. C’è questo aneddoto relativo ad Antonioni che mi ha colpito: in pratica durante le riprese di Deserto rosso aveva fatto dipingere un bosco completamente di bianco determinando sconforto nei produttori che avevano speso tantissime risorse per realizzarlo. «Ma perché un bosco bianco?», gli chiedevano. Lui rispondeva «Perché sì». Ad ogni modo alla fine la scena non fu mai inserita nel film. Ecco anch’io a volte riascolto delle strofe che trovo parecchio interessanti e decido di tagliarle via perché non servono nell’economia del brano o nel flusso del disco.
Qual è in definitiva il tuo imperativo per sfuggire al superfluo, o comunque per riconoscerlo?
Mi dico sempre: «Vasco, nel dubbio di’ la verità». È l’unico vero esercizio di scrittura creativa. Questa frase ripetuta a sè stessi fa sempre succedere qualcosa. Il più grave delitto che possa commettere è allontanarmi dalla mia verità. Però ecco, anche dal punto di vista umano questo lavoro di sintesi è molto interessante perché rimuovere l’inessenziale significa anche fare i conti col proprio ego.
A cosa ti riferisci?
Ad esempio se mi accorgo che so scrivere una cosa formalmente bella ma inutile al fine di portare avanti il discorso, lì è l’ego che stava prevalendo, e cerco di estirparlo. Motivo per cui ad esempio non sentirai mai un assolo di chitarra nelle mie canzoni. Piuttosto dico un’altra cosa, o rimuovo quella parte di brano. Le mie origini punk restano forti ed inalterate in tal senso.
Sembri molto riservato, come sfuggi alla popolarità, visto che ad oggi il tema caldo è la pressione dell’industria?
Mi impegno molto a scindere la mia vita artistica dalla mia vita privata. Sartre diceva: “Uno che fa il cameriere, fa il cameriere, non è un cameriere”. Lo stesso vale per noi cantautori. A me comunque piace tornare in provincia dove chi sta con me se ne frega delle mie canzoni oppure vado in luoghi dove nessuno sa chi sono. Poi ci stanno incontri come questo in cui posso parlare del mio lavoro, ma la gran parte del tempo, prima di un album, sono un topo di biblioteca.
Come si affronta questa ansia da “primi in classifica”, ovvero la ricerca spasmodica dei numeri?
Alla base ci sono i propri riferimenti. I miei sono artisti che hanno ignorato ciò che avevano intorno e hanno proseguito sulla loro strada. Uno come Paolo Conte ha visto sfrecciarsi addosso il grunge, la disco music, il pop ma non si è mai voltato a guardare. È rimasto a fare per cinquant’anni le sue cose col frac indosso, al pianoforte, senza farsi distrarre da ciò che succedeva. Essere guidati da questo spirito può essere un limite ma se lo è, io me lo godo.
È dunque anche una questione di qualità della ricerca?
Assolutamente sì. Anche nell’alternative pare che la ricerca debba essere orizzontale, per accrescere pubblico, followers, ambire a venue più ampie in cui suonare. Io so che abbiamo pochi anni a disposizione e quindi preferisco fare una ricerca verticale, e dunque artistica.