Genova, il 2016, il successo travolgente di Marassi, Corochinato, il Festival di Sanremo (nel 2019), la pandemia, il tempo e il proprio pubblico come punto di riferimento per tratteggiare i contorni e riempire gli spazi di venti anni vissuti a stretto contatto con la musica. Gli Ex-Otago sono stati dei perfetti mutaforme, costantemente capaci di reinventarsi e di trovare sempre nuovi modi di fare musica senza perdersi per strada, senza rinunciare alla loro essenza, ai loro valori e alla loro identità. La band ligure è fatta della stessa sostanza di cui sono fatte le “anime salve” di Fabrizio De André: spiriti solitari che hanno trovato nella collettività, nel confronto e nel dialogo il fulcro della loro musica. Essere parte di un «apparato, di un organismo collettivo», come ci racconta Maurizio Carucci, diventa così il motore primario di una vita passata su un furgone, calcando i palchi più importanti d’Italia. E ora gli Ex-Otago sono finalmente tornati.
Inizio dal tour: come state vivendo questo ritorno collettivo – come gruppo – alla dimensione live (domani si esibiranno al Fabrique di Milano ndr.)?
Il palco è fondamentalmente il posto in cui ci sono meno grane, difficoltà ed ostacoli. Quando saliamo lì sopra, vuol dire che siamo arrivati in cima al monte. È un atto liberatorio, in cui pensiamo solo a cantare, godere e gioire, ma è anche un momento importante e determinante. Il tour sta svolgendo un ruolo liberatorio, che si potrebbe definire quasi lisergico. Le stesse persone che ci vengono a vedere suonare stanno contribuendo a questo rito, perché si percepisce la loro grande voglia di musica. Sono tre anni abbondanti che avevamo smesso di suonare per l’Italia e ci siamo resi conto di sentire mancanza del nostro pubblico.
Da Corochinato e da Sanremo sono passati quattro anni, c’è stata una pandemia di mezzo. Da dove viene la scelta di tornare direttamente sul palco senza passare, come si fa canonicamente, da un disco?
È una scelta legata principalmente al tempo. Avevamo voglia di suonare, ma il nuovo disco non era ancora pronto. Ci siamo detti: vogliamo aspettare ancora un altro po’ o buttarci sui palchi e prenderci quello che c’è? La gente ha voglia e desidera indubbiamente un progetto. Vogliono una visione, qualcosa di nuovo. Sono molto affezionate a questo modo specifico di stare dentro la musica. Quando ho una visione nuova del mondo o un’idea, la butto giù, la scrivo e poi la canto. Questa parte è mancata, perché l’avvento della pandemia nel 2020 è stato uno scossone mondiale che ci ha travolto, trafitto e attraversato.
Cosa vi spaventava?
Temevamo che il tempo – da sempre portatore di grandi verità e schiarite – potesse anche allontanarci. Questo è anche uno dei nostri obiettivi primari: vorremo rimanere dentro al tempo con qualcosa di buono tra le mani, ma non sempre ci riusciamo. Pur non avendo un disco chiuso, abbiamo pensato di mischiarci con le persone che più ci sono mancate, anche per capire chi siamo e cosa stiamo facendo nel presente.
Personalmente, il passare del tempo mi spaventa. Ogni tanto mi sento sopraffatta dalle giornate che scorrono via inesorabilmente e ho sempre pensato che la pandemia abbia inevitabilmente segnato un prima e un dopo nella nostra vita.
Effettivamente c’è una percezione del prima e del dopo. È come se ci fossimo accorti che in quanto specie umana non siamo mai troppo al sicuro. Quello che percepisco è una grande paura. Ci ingozziamo per rimanere al passo con il tempo. Stiamo diventando più onnivori e cannibali nei suoi confronti.
In questi quattro anni su cosa ti sei riuscito a focalizzare?
In questi anni ho cercato di sopravvivere e in qualche modo penso di esserci riuscito. Mi sto concentrando sulla scrittura più lunga e sui quei processi che mi possono portare e guidare verso la chiusura di un progetto. Mi interessa di più il cammino che si deve fare per arrivare ad un ritornello, una canzone o un disco. Ho avuto e continuo a coltivare un grande bisogno di entrare dentro la mia musica per approfondirla. Mi annoia l’estetica delle cose e mi stanno appassionando gli ingranaggi, le metamorfosi che accadono nei processi creativi.
Anche in questo momento?
Tendenzialmente sto un po’ rallentando, perché il ring della musica pop per alcuni versi mi ha stufato, ma credo che sia normale. Ho un hard disk con millecinquecento canzoni, ma se prima avevo una visione più pragmatica legata all’efficacia della musica, adesso mi interessa scoprire cosa si celi dietro di essa, lavorando su determinati meccanismi. Credo che questa attitudine crei un risultato più ricco o interessante.
Ti sei mai sentito schiavo dei numeri?
Schiavo, dipendente e chi più ne ha più ne metta. Ecco perché cerco altri modi per esplorare ed immergermi nella scrittura. La nostra società senza dubbio è sempre più affezionata alla cultura della quantità, ma devo ammettere che questo atteggiamento mi deprime e al contempo mi tranquillizza. Mi sento molto lontano da queste logiche. Ora mi dico da solo di prendere una bella sedia, di quelle che trovi negli orti, guardare il tramonto e riflettere.
Anche per avere una prospettiva diversa ci vuole un approccio diverso…
La pandemia – almeno per me – è stata rivelatrice. Queste rivelazioni mi hanno scosso, ma mi hanno anche permesso di capire chi sia in questo momento. Mi ha rivelato un mondo che mi piace in parte e nel quale credo sempre, ma in parte ad essere onesto. Sto lavorando sui margini. Se esiste un centro, che è la cultura di massa e l’industria di massa, non dico certamente vaffanculo, ma un piede sta lì e un piede sta ai margini, nelle periferie.
Hai iniziato a fare musica nel 2002, con un disco che inizialmente aveva venduto cinquecento copie. C’è qualcosa che ti manca di quel modo di fare musica, di approcciarsi e respirare un mondo che è stato completamente ribaltato?
Non mi manca niente, perché sento di aver dato veramente tutto. In ogni fase del progetto Ex-Otago e della mia vita ho dato di tutto e di più. Sono una persona che si offre molto e non si ritrae mai. Quando c’è da ballare, io lo faccio fino a quando mi fanno male le gambe. Mi sono spaccato la testa sul palco e spaccavo bene o male una tastiera ad ogni live. Gli Ex-Otago del 2002 erano un progetto performativo, molto diverso da oggi. C’era la componente pop, ma c’era anche una componente di ribellione, puramente punk. L’indie-pop, in quanto genere, non esisteva. Si parlava di pop con artisti come la Pausini e Ramazzotti. C’era anche il pop underground dei Subsonica, decisamente più noir, ma noi volevamo proporre un pop d’amore più spensierato, con tanto di chitarre acustiche e effettivamente in Italia qualcosa di simile non c’era.
A proposito di indie-pop, l’album che per voi ha cambiato tutto è stato Marassi, anche perché è diventato un vero riferimento musicale e culturale per un’intera generazione.
È stato un momento molto determinante e significativo nella nostra carriera. Questo nostro linguaggio senza dubbio pop, scanzonato, ma anche amaro e tutto sommato di protesta, veniva compreso da una massa. Non era mai successo prima di quel momento. Gli Ex-Otago hanno un linguaggio senza dubbio pop, ma mai per tutti. Ci fa tutto sommato piacere, vuol dire che abbiamo forse un carattere e un’identità. È stato un momento in cui le costellazioni ci hanno aiutato a parlare con tanta gente, raccogliendo tanto e scoprendo altrettante cose. Tutt’ora mi piace tantissimo Marassi. È un disco che mi piace ascoltare e penso che abbia un valore. Si può considerare un progetto significativo nella musica recente. Fa parte di quei dischi che sono molto ispirati, che si sono ritrovati dentro ad un preciso momento storico che non penso possa ripetersi, ma va benissimo così.
L’indie secondo te potrebbe tornare ai fasti del 2016 o del 2017?
Ci sono dei momenti in cui funzionano di più verti linguaggi rispetto ad altri. Sono ragionamenti che faccio nella mia intimità e sul furgone con i ragazzi: se un progetto porta con sé un bagaglio valoriale e ha una vita concreta nella musica, può riuscire ad andare ben oltre le mode. Questa è la grande sfida di un musicista. Penso a Marassi, al 2017, all’esplosione dell’indie pop, ai cinque singoli in alta rotazione in radio, all’apertura che abbiamo fatto ai Radiohead, al MI AMI e così via. Bisogna capire se questi progetti negli anni continuino ad avere una credibilità e un pubblico. Io scrivo per un pubblico: non sono un bohémien dannato che esprime le sue frustrazioni, ma scrivo perché mi aiuta a stare meglio, perché so che c’è un pubblico che aspetta quello che scrivo. Finché ci sarà un pubblico, ci sarà vita. Parlando di cambiamenti, penso proprio che rimanga chi ha delle parole che sono capaci di andare oltre il tempo.
Negli ultimi singoli canti versi come: “Siamo giovani, lo siamo stati/E cerchiamo di non essere uccisi/Dal capitalismo, dalle dirette/Dei cantanti pop, degli influencer”. E ancora: “Non aspettare un secondo/Per dirmi quanto mi ami/Per dirti quanto mi mancherai”. In cosa sei riuscito a trovare il tuo barlume di speranza, quell’appiglio che vi ti fa dire “non va bene, ma in fondo sì, in fondo va davvero tutto bene”?
Questo discorso che stiamo per inaugurare è potenzialmente lunghissimo. Non sono ottimista, però un po’ di mesi fa ho fatto un viaggio in un eremo dove vivono in grande semplicità tre frati ultrasettantenni. Un giorno, uno dei tre mi ha detto: «Non sono ottimista, ma ho speranza». Non sono cristiano, ma in qualche modo mi considero una persona religiosa e questa frase mi ha veramente incoraggiato. L’ottimismo è figlio del capitalismo, perciò io cerco di abbracciare sempre la speranza scrivendo canzoni, muovendomi nello spazio con dei messaggi, con degli abbracci, con dei sorrisi, esprimendo la mia opinione sui temi cruciali del nostro tempo. Cerco di nutrire la mia speranza proprio così, rimanendo sempre dentro ad un moto. È l’unica cosa che mi salva.
C’è ancora un lido verso il quale la band non si è spinta?
Abbiamo tante idee, siamo sempre molto radicati sul nostro territorio: Genova, la città che amo e che frequento. Ci piacerebbe provare a costruire un progetto più continuativo nella nostra città. Sento che ci siano delle idee, delle proposte e dei desideri, non tanto miei quanto più del progetto Ex-Otago. Potrebbe essere legato alla musica o alla cultura, perché siamo sempre stati eclettici come band. Abbiamo desideri, identità e attitudini diverse. Vorremmo solo che venisse sviluppato e si radicasse nei luoghi a noi cari.
Cosa senti di aver conquistato a livello umano e artistico in questi vent’anni di attività?
Senza dubbio la consapevolezza di voler investire in un progetto collettivo. In una società estremamente individualistica, dove sembra che il “noi” non esista più, il fatto di investire in un gruppo è qualcosa che da valore alle nostre azioni e poi aver costruito un suono e un linguaggio nostro. È un traguardo meraviglioso, che ricollego sempre al fatto di avere un pubblico. È la vetta più alta che un artista possa raggiungere, specialmente ora che escono quarantamila brani al giorno e ci sono milioni di artisti che si muovono in questo ecosistema. La fortuna più grande è essere ad un punto della nostra carriera in cui possiamo muoverci all’interno di un apparato o di un organismo collettivo, avendo investito e costruito, suonato e dialogato con un pubblico.
Digital Cover: Simone Mancini/Jadeite Studio
Coordinamento redazione: Emanuele Camilli
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