In un certo senso, per me i Cure sono stati una scelta obbligata. Quando mi cacciarono fuori dalla scuola superiore, la mia famiglia cominciò a fare pressioni perché mi trovassi un lavoro, uno qualsiasi, purché fosse un’occupazione. Ma io ero arrivato al punto che mi sarei suicidato piuttosto di lavorare: che l’ufficio di collocamento desse pure lavoro a chi lo voleva, io me ne sarei rimasto a casa ad ascoltare musica. Non avevo altre prospettive, e così decisi di impegnarmi a fondo con la band. I primi anni sono stati terribili, ma anche nei momenti peggiori era sempre meglio che lavorare.
La trasgressione fine a sé stessa è la cosa più banale che si possa immaginare. La stampa mi ha cucito addosso l’immagine di simbolo-dark oppresso da una realtà troppo grande per lui, e che si spinge fino ai limiti dell’autismo e dell’incapacità di vivere, rifugiandosi nel sintetico universo delle droghe: ma è una cosa ridicola, perché se fossi come mi descrivono, sarei completamente in balìa degli eventi, incapace di fare alcunché, mentre due o tre cosette mi sembra di averle combinate.