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I Måneskin hanno portato a San Siro la loro evoluzione a-lá-Dragon Ball

I Måneskin del presente sono un’evoluzione di quello che erano, quello che però non è cambiato è la loro abilità nel tenere il palco

Esibirsi in un contesto come San Siro, per i Måneskin è letteralmente il coronamento di una favola iniziata lungo Via Condotti e proseguita con la scalata dell’Olimpo – «Suonando in giro, nei ristoranti e per strada, abbiamo capito che forse si poteva fare. Abbiamo iniziato a sognare i teatri, i club, i palazzetti e poi anche gli stadi», dicono. Dai club alla registrazione di un nuovo disco a Londra, dalla vittoria di Sanremo alla consacrazione internazionale con l’Eurovision. Da due anni a questa parte, non c’è stato alcun punto di ritorno, ma solo una spinta a propulsione che li ha portati in giro per il globo con il Loud Kids Get Louder Tour e che – dopo la parentesi italiana di questi ultimi giorni – li vedrà calcare il palco del Madison Square Garden. Un mix di glam e hard-rock con contaminazioni pop-rock, il carisma letale del gruppo, ma soprattutto la formula chimica perfetta che li vede incastrarsi come i pezzi di un puzzle. Perfettamente.

L’immagine che ne risulta è quella di un’ora e mezza di concerto ad alta tensione, rispettando la scaletta proposta durante la leg italiana, ma con l’aggiunta di una piacevolissima Le parole lontane, singolo estratto da Il ballo della vita. A pensarci bene, i Måneskin del presente sono un’evoluzione a-lá-Dragon Ball di quello che erano solo cinque anni fa. È cambiata la loro scrittura, di cui ci avevano dato prova con l’uscita di Teatro d’Ira – Vol. 1 (un progetto che spero tanto possa trovare una sua conclusione con un volume 2 in futuro) e molto probabilmente anche il loro approccio alla musica, complice la collaborazione con le stelle del firmamento pop americano, dal Re Mida Max Martin a Rami Yacoub e Justin Tranter. Non è però cambiata la loro malleabilità, vale a dire la loro abilità nel tenere il palco adattandosi perfettamente allo spazio in cui si trovano. Non sembrano soffrire quella pressione e ansia da prestazione ma anzi, hanno lo stile e la caparbietà di un veterano. Sono stati criticati e si è parlato fin troppo della loro apparenza e molto poco della loro sostanza.

Eppure nei quattro romani c’è tanta voglia di prendersi e mangiarsi tutto. Lo hanno fatto senza dare troppo addito alle voci – perlopiù italiane – che hanno riempito i quotidiani in questi mesi e mentre Damiano si accinge a cantare uno dei cavalli di battaglia, Beggin’, ci tiene a precisare senza usare mezzo francesismo che a loro non «giene frega un cazzo». Mentre in scaletta si susseguono pezzi graffianti (Don’t Wanna Sleep, In nome del Padre), hit da milioni di stream (I Wanna Be Your Slave, Zitti e buoni, Mammamia) e momenti acustici (Coraline, Torna a casa e Vent’anni), ci si chiede onestamente cosa possa esserci di più. Una volta scalata e raggiunta la cima più alta della montagna, cosa ti rimane? Parlare solo di esibizionismo non sembra essere corretto, perché la sfrontatezza, il senso di ribellione e di libertà che contraddistingue il gruppo è sempre stato ben piantato nel loro codice etico, artistico e musicale. Parlare di meteore nell’industria musicale sarebbe solo ridicolo, vista la strada percorsa fino ad oggi e i successi senza precedenti che hanno saputo collezionare.

Audentes fortuna iuvat (ergo: la fortuna aiuta gli audaci) mi sembra il modo migliore per descrivere i Måneskin. A ben pensarci, sono la perfetta definizione di audacia. Hanno avuto la capacità e la volontà di correre dei rischi contro tutto e tutti. Contro i benpensanti, contro gli haters, contro i media, contro chi diceva che non sarebbero mai riusciti ad andare oltre X Factor. Eppure, quando arrivi a toccare il cielo ti tocca anche fare di tutto per rimanerci. Sarà questa la prossima sfida per la band romana? Come in ogni favola che si rispetti, ci si immagina ancora una volta un lieto fine. Intanto, lo stadio ha accolto i suoi gladiatori e loro hanno saputo rispettarlo.