Ore ventuno spaccate, la musica in sottofondo si fa più forte per qualche minuto che sembra infinito. Faccio sempre caso alla playlist pre-show, è pensata per smorzare il silenzio e placare il brusio di voci che riempiono uno stadio, ma soprattutto è strutturata per impostare il mood della serata e far capire in che tipo di esperienza ci si troverà immersi. La musica scelta è elettronica e per niente banale, l’Olimpico diventa quasi un club di Berlino. Il volume si abbassa, i rintocchi alla batteria si fanno sempre più forti e i Depeche Mode si presentano alla Capitale con fare elegante, eseguendo My Cosmos Is Mine e Wagging Tongue: è un inizio ipnotico, calmo, il pubblico ascolta attentamente. Esclusa la partecipazione come superospiti all’ultima edizione di Sanremo, i Depeche Mode mancavano in Italia da cinque anni: Roma è la prima città pronta a ospitare il tour estivo che proseguirà a Milano e Bologna, per tornare la prossima primavera nei palasport. Tuttavia, è con Walking in My Shoes che si scaldano i motori di band e fan. Dave Gahan balla libero sul palco proprio come noi dal prato fino alle tribune, Martin Gore canta i cori imbracciando la sua chitarra.
Penso a Andy Fletcher senza realmente credere che sia assente: i concerti dei Depeche Mode sono dei rituali in cui poter celebrare qualcosa e i Depeche Mode scelgono di celebrare la loro vita con lui ma anche il qui e ora. È il loro primo tour senza Fletcher e il loro ultimo disco, Memento Mori, ruota proprio attorno all’intreccio tra vita e morte. La doppia M presente sullo sfondo al centro del palco, un rimando al loro recente lavoro in studio, si accende definitivamente ma lo show stavolta procede con dei classici, It’s No Good seguita da Sister of Night. In Your Room e Everything Counts: è il momento in cui Dave Gahan si concede alla passerella, avvicinandosi di più ai 60mila che pendono dalle sue labbra e cantano con lui ogni singola parola. Poi arrivano le ballad: gli arrangiamenti, le intro e gli outro sono tra i punti di forza del concerto e Speak To Me non fa eccezione, con una coda finale orchestrale da brividi. Tra un classico e una canzone del nuovo disco arriva il momento di A Question of Lust, cantata interamente da Martin Gore. Il trittico è chiuso da Soul With Me in versione acustica: Dave Gahan introduce il resto della band, con Christian Eigner alla batteria e Peter Gordeno ai synth.
Una band di fuoriclasse per uno show da fuoriclasse: suonano World In My Eyes dedicandola ad Andy Fletcher, ne commemorano il ricordo anche con una Ghosts Again. Sugli schermi il video ufficiale, ispirato dalla partita a scacchi con la morte ne Il settimo sigillo: penso per un attimo allo scorrere del tempo, mi ricordo che tutto ciò prima o poi finirà ma mi lascio confortare dalla musica che rimane eterna. Arriva Stripped, la mia voce si mischia a quelle di tutto lo stadio. I Depeche Mode lasciano brevemente il palco dopo Enjoy the Silence per ritornare con un encore ricchissimo di emozioni: Waiting for the Night viene eseguita in acustico sulla passerella, il più vicino possibile al pubblico, e si conclude con un abbraccio fraterno tra Gahan e Gore. I colpi di cassa suggeriscono il pezzo successivo e i pochi rimasti seduti non esitano ad alzarsi, tutti sono coinvolti più che mai su Just Can’t Get Enough. Perdo la testa come ognuno di loro su Never Let Me Down Again e penso che, per quanto vorrei che non finisse mai, ne manca ancora una ed è proprio quella lì: Personal Jesus è una festa, una black celebration, un culto a cui ognuno giura fedeltà. Per sempre.