Tra me e l’intervistato intercorrono una settantina di minuti di macchina, un paio d’ore coi mezzi, una giornata o due a piedi. Fonte: Mappe dell’iPhone. Questo perché, per connettere due punti, può volerci moltissimo oppure un batter d’occhio. La forza di Tiziano (di qui in avanti Gianni) consiste nell’assottigliare la distanza tra sè e le persone e – malgrado sia solito farlo attraverso le canzoni – questa volta ho la sensazione che Viterbo (in cui mi trovo nel momento in cui parte la registrazione della nostra chiacchierata) e il terrazzo giallo canarino da cui si connette Gianni siano più vicini che mai. Mi presenta il suo splendido gatto grigio perla, si siede su una sedia a sdraio e si gusta avidamente il suo drummino. «È un gran fio de na mignotta», mi dice mentre accarezza il pelo con la sua mano tatuata su cui campeggia un anello d’oro. Chi è delle nostre parti sa che è più un complimento che una offesa, se non altro perché Roma (e dintorni), se non te la mangi, ti mangia. Gianni è uno in grado di farti entrare nella sua infanzia provocandoti un senso di fortissima malinconia, ma allo stesso tempo senso di appartenenza.
Sei un tipo molto nostalgico o sbaglio?
Molto nostalgico. Mi piace raccontarmi sempre con un occhio al passato e infatti la mia scrittura nasce dal desiderio di mostrare il mio modo di vedere il mondo attraverso le esperienze che mi hanno costruito. Io a voce ti dico poco, un po’ perché non mi fido quasi di nessuno, un po’ per mancanza di confidenza. Poi all’improvviso ho scoperto che con la scrittura tutte le riserve scomparivano e la penna si è così trasformata nel mio psicologo.
Gli anni delle superiori sono stati complicati da quel che mi sembra di capire, eppure sembra che tu voglia tornarci sempre per analizzarli. Perché lo fai?
Sono stati anni cruciali per me, ma credo un po’ per tutti. Anche se non li stai vivendo in questo momento, quegli attimi sono ancora nella tua testa e nel mio modo di descriverli c’è sempre uno spazio, una sorta di margine, che ti permette di adattarlo sulla tua storia. Prima e terza persona si mescolano quando il mio brano arriva alle orecchie delle persone.
C’è un passaggio su Studiami (il suo nuovo singolo ndr.) in cui dici “I giorni chiuso in studio in cui non rispondo a nessuno non me li ridà nessuno”. Una cosa molto simile me la disse anche Franco126. Come alterni vita privata e lavorativa?
Non esisterebbe la mia musica senza le mie esperienze. Chi fa il nostro mestiere deve essere bravo ad alternare vita privata e lavoro, altrimenti finisce la linfa vitale delle canzoni. Tu pensa che durante la pandemia non sono stato in grado di scrivere nulla proprio per questo motivo. Provavo a scrivere, ma poi non ero mai convinto e cestinavo. Quando è finita la pandemia ho cercato di fiondarmi in cerca di situazioni e momenti emotivamente forti. Lo dicevo proprio a Franchino (Franco126 ndr.) tempo fa: quando avevo la ragazzetta, anche durante il periodo di Università… (prende una lunga pausa, riaccende la sigaretta che nel frattempo non tira più e, guardando fuori dallo schermo, cercando l’orizzonte del quartiere, ci riprova ndr.). Non so neanche come spiegartelo ma mi manca anche litigare con la mia ragazza perché se da una parte mi rovinava la giornata, d’altro canto mi portava a fare quell’ora di scrittura che alla fine mi faceva dire «porca troia che ho scritto», se non altro perché, bello o brutto che sia, un brano quando è vero merita un certo rispetto. È grazie alle emozioni negative che esce la roba più potente.
È una cosa che penso anch’io: depressione, nostalgia, dolore. Questi temi sono sempre i più forti. E se uno è in cerca di sentimenti in grado di produrre delle grandi opere di espressività interiore, il male (se così vogliamo chiamarlo) batte il bene dieci a zero.
Siamo impicciati fratè. Ci tocca vivere male per scrivere bene, non c’è niente da fare. E in un certo senso questa cosa crea un senso di attrazione verso il mood della negatività. È affascinante l’esperienza brutta perché produce uno scossone in grado far nascere una grande canzone.
Comunque tu e Franco126 mi sembrate molto simili. Entrambi legati alle cose semplici, come una birra, la comitiva, la strada. Ed entrambi inclini all’agrodolce, se capisci cosa intendo.
Capisco perfettamente ciò a cui ti riferisci e devo dire che in effetti anch’io sento questa somiglianza caratteriale con lui. Solo che lui è la parte più pulita. Con Franco ci conosciamo dagli inizi, quando lui aveva scritto pochissime cose mentre io ancora no. Ci lega tantissimo la passione per Franco Califano, che per me è una icona assoluta. Il califfo è indubbiamo l’artista che mi ha cresciuto di più e per Franco vale lo stesso, infatti ci siamo presi fin da subito.
Artisticamente pure siete vicini, in qualche modo.
Dopo Università ci siamo resi conto che le nostre anime in qualche modo comunicano bene. Ma poi, a prescindere dalle nostre pubblicazioni in featuring, io lo sento spesso per chiedergli che ne pensa di un ritornello o di una strofa che sto scrivendo e lui fa lo stesso con me. È preziosissimo confrontarci su questo genere di cose o prestarci un orecchio, prima ancora che siano uscite. «Ti piace più questa versione o quest’altra? Il ritornello è troppo vuoto o va bene così?». E il feedback è sempre preziosissimo.
C’è una cosa che ti fa proprio incazzare?
Quando la gente ascolta la musica in inglese così non deve soffermarsi sul significato del testo. Per me il testo è tutto. La cosa in assoluto più importante.
Nei tuoi brani si sente tanto questa voglia di emergere, di dimostrare, di primeggiare. Eppure a questo individualismo si alterna una voglia di esaltare la collettività. Penso ai tanti feat che hai fatto con gli artisti della scena romana. Perché secondo te oggi si è perso questo senso di “farcela tutti insieme” che ad esempio era presente nel periodo della wave indie di Calcutta, Thegiornalisti, Gazzelle?
Prima era molto più accentuato. Eravamo più compatti.
Perché secondo te?
Perché non ci credevamo neanche noi, Simò. È brutto da dire ma è questo il punto. Era un modo anche per farci coraggio, della serie: da solo non ce la faccio ma tutti insieme possiamo spaccare il mondo. Benché ovviamente fin da subito ci fossero dei dislivelli di stream e di conseguenza di popolarità, chi stava sopra trascinava chi stava sotto.
E poi?
Beh, ovviamente quando questa cosa non è capitata a tutti, è stato necessario capire con maturità che chi di noi aveva la chance, doveva trovare il coraggio di perseguire il sogno fino in fondo e di concentrarsi su sè stesso. Altrimenti il rischio sarebbe stato quello di essere noi risucchiati dal basso anziché viceversa.
Che poi tu hai sempre voluto dare visibilità ai tuoi amici, penso ad esempio alla copertina di Bravi ragazzi.
Esattamente. In quella copertina ci sono ragazzetti di Garbatella che potevamo essere noi da pischelli. Il protagonista di C’avevo n’amico per dire che ha una faccia proprio da film. Io la prima cosa che ho detto è stata: facciamo un video con questi ragazzi che magari qualcuno li vede e li richiama, così li leviamo dalla strada.
C’è una domanda che faccio spesso agli artisti che incontro. Riguarda la pressione e la responsabilità. In pratica ascoltai una intervista a Kurt Cobain in cui lui diceva di non sopportare il fatto di essere un punto di riferimento per tante persone, perché di base c’era nella sua percezione un gap enorme tra ciò che era agli occhi dei suoi fan e ciò che invece credeva di essere egli stesso. Tu la senti questa responsabilità?
Mi pesa tanto quando pensano di avere davanti una persona diversa da loro. Mi arrivano tanti messaggi in cui dicono frasi del tipo: “Sei il fratello che ho perso, sei il papà che non ho, vorrei avere una vita come l’hai avuta tu”. Scusa ma ho i brividi mentre te lo dico (riprende contatto visivo con la camera del dispositivo quasi a voler incrociare il mio sguardo, e mentre me lo dice mi mostra la pelle d’oca che increspata affiora sul braccio destro, una volta sollevata la manica della felpa in acetato giallo acceso ndr.). “Io c’ho avuto culo. Devi puntare molto più in alto e non fermarti al primo sguardo”, gli dico sempre.
E poi c’è anche l’idealizzazione, no?
Magari per molti sono perfetto, ma la verità è che la figata consiste proprio nel fatto di poter essere ok nell’imperfezione.
Cosa ne pensi della musica oggi nel panorama italiano?
Oggi tutti vogliono imitare ciò che funziona. Di base perché il fine è più importante del percorso per la maggior parte degli artisti emergenti. Io invece penso che fare il pezzo alla Sfera Ebbasta funziona solo se sei Sfera Ebbasta. Ognuno dovrebbe cercare di trovare la propria unicità nella musica, anche se ciò comporta dei rischi. Io stesso agli inizi mi vergognavo molto delle mie cose, ma fortunatamente col tempo ho capito che dovevo avere il coraggio di pubblicare, di espormi. Alla fine è andata bene.
Per un malato di Lazio come me è impossibile non salutarti senza neanche una battuta sulla Roma…
Ognuno ha la sua. Ti rispetto. Non mi mettere però in difficoltà con domande sulla Roma (ride ndr.).
Ti piace questa Roma un po’ zoppicante in campionato ma cinica in Europa?
Non potrò mai parlare male della Roma. Forse non avevamo la squadra giusta per arrivare in fondo anche in campionato (a questo punto sbuffa, un po’ come quando si fanno gli esercizi per scaldare la voce. Vorrebbe dire, ma da buon tifoso innamorato, non dice ndr.). Grande mister (Josè Mourinho ndr.) che ci ha portato due finali in due anni. Non siamo abituati a questo, quindi gioca bene o gioca male, siamo in finale.
Che poi devo dire che secondo me ci sono molti punti in comune tra te e la Roma di Mourinho: ad esempio la capacità di soffrire. La Roma soffre tanto, ma riesce quasi sempre a restare in partita fino all’ultimo. Anche tu racconti di una infanzia piena di momenti complicati…
È così, certo. Tra l’altro hai fatto un quadro perfetto della situazione che viviamo dal giorno in cui abbiamo iniziato a tifare. La Roma è questa da sempre ed è per certi versi la parte più bella e complicata dell’essere tifoso di una squadra non particolarmente vincente. Se sei romanista sei destinato a soffrire. In compenso le piccole gioie diventano grandissime.
Noi laziali siamo legati più alla squadra del meno nove che a quella dello scudetto, e un po’ anche per voi è lo stesso. Spesso è in fondo al baratro che c’è la poesia, un po’ come nelle tue canzoni.
Ora che mi ci fai pensare, è vero. In tal senso c’è qualcosa che unisce noi cantautori dalla vena malinconica alla vita da tifosi. La sofferenza è il sale della nostra fede, e la musica, come anche il calcio, sono espressioni di una vocazione cieca, quasi una religione.
Nati per soffrire, insomma?
Sì, è ‘na vitaccia. Ma forse sono stato fatto per vivere questa vita. Per certi versi non posso lamentarmi e anzi devo ritenermi un privilegiato. Fare della propria passione una professione è una cosa indescrivibile e non ho intenzione di smettere di onorare questa grande opportunità che mi è stata data dalle persone che mi ascoltano e dagli addetti ai lavori che mi aiutano a fare tutto al meglio.
Un’altra caratteristica che ha la Roma, soprattutto in coppa, è la capacità di giocare ogni partita come se fosse l’ultima, e in un certo senso è qualcosa che ho sempre sentito nei tuoi brani. Come riesci a trovare sempre questa forza di raccontarti a tutto tondo senza mai esaurire il bagaglio?
Io non sono in grado di fare il compitino. Quando vado in studio con i produttori sapendo che devo scrivere un brano non mi riesce. È come se stessi forzando un processo che deve essere naturale. Infatti ti dico, ogni volta è un miracolo il fatto che ne esca una nuova. Non so come succede, semplicemente succede. Quando parlo di strada è perché ho vissuto qualcosa per strada che mi ha segnato. Idem in amore. Se non c’è uno stress, non tendo a scrivere, perché è impossibile per me fare musica a comando, non essendo un mestierante. Poi se vuoi un freestyle, te lo scrivo anche qui in diretta, ma una canzone non può nascere senza un “prima”.
Raccontami un “prima” che ti ha fatto scrivere un pezzo a cui sei legato.
C’avevo un amico. C’era un funerale di zona e quando sono entrato in chiesa e ho girato la testa ho rivisto tutta la comitiva mia, e quella dei più giovani, e quella dei più grandi. Un momento incredibile, denso di dolore, certo, ma c’era una energia sovraumana che voleva uscire. In quel momento è stato come un tuffo nel passato e di ritorno a casa, ti giuro, il pezzo è uscito da solo. Ogni volta che succede ricordo a me stesso di essere grato per tutto ciò che mi è successo.