Uno dei casi di cronaca nera più rilevanti degli ultimi decenni in Italia è sbarcato su Netflix e nei migliori cinema della Penisola. Sulla mia pelle è un prodotto informativo, politico, analitico, in grado di fornire i mezzi per elaborare un’idea, rimanendo tuttavia assolutamente super partes.
Il rischio alla vigilia era di incorrere in una pellicola pregna di marketing dove a trasudare fosse un chiaro senso di sciacallaggio; si tratta invece di un documentario di altissima caratura, dove Alessandro Borghi sale in cattedra ed eclissa le già sorprendenti interpretazioni che lo hanno reso noto negli ultimi anni. Il linguaggio filmico è intelligente e raffinato, mai melodrammatico, mai romanzato. Percettivamente sembra quasi che il tempo della storia e quello del racconto coincidano. In realtà sono messi sotto i riflettori gli ultimi sette giorni del trentenne Stefano Cucchi, dal momento in cui viene sorpreso a vendere droga ad un suo amico, fino al decesso avvenuto il 22 ottobre 2009.
Nelle scene si percepisce una oggettività impressionante, malgrado molte delle testate italiane siano già in fermento durante queste prime ore dal rilascio della pellicola sulla piattaforma di streaming statunitense. I fatti sono riportati con fedeltà: nella scena dell’arresto, per esempio, non viene ripreso lo scambio di denaro, come più avanti non verrà mostrato quel pestaggio che, ad oggi, non è stato provato. In fondo al lungometraggio i testi raccontano di come i familiari abbiano trovato e consegnato le droghe che Cucchi custodiva in casa e che i carabinieri non avevano trovato.
Alessio Cremonini, dunque, non prende le parti dei familiari di Cucchi (come era auspicabile) ma nemmeno quelle del corpo di polizia penitenziaria. Durante la scena del processo per direttissima, Borghi si mette in bocca le stesse identiche parole di Cucchi, riportate in audio originale, anch’esse durante la coda del film. È praticamente impossibile distinguere gli atteggiamenti, il tono e addirittura il timbro dell’uno e dell’altro.
Quella celebrata da Sulla mia pelle è una vittoria della Democrazia, della libertà di pensiero, parola ed espressione, è una vittoria del cinema italiano, di quel Borghi che ricorda il Jared Leto di Dallas Buyers Club (che gli valse l’Oscar) e, ultimo non ultimo, di Alessio Cremonini, che ha il solo difetto di portare un cognome che ci obbligherà sempre a riportare il nome di battesimo.
Rispondendo alla domanda che tutti si stanno facendo: sì, Sulla mia pelle si merita tutti e sette i minuti di applausi tributati alla pellicola dopo la prima al Festival di Venezia.