Questo maggio, alla fine della settantacinquesima edizione del Festival di Cannes, lo svedese Ruben Östlund è diventato il nono regista della storia ad essere premiato con due Palme d’oro – tra i pochi che hanno ricevuto questo onore ricordiamo Michael Haneke, Ken Loach e Francis Ford Coppola – grazie al film Triangle of Sadness. La prima Palma dell’autore svedese era arrivata nel vicino 2017 per The Square, satira grottesca sul mondo dell’arte contemporanea ispirata all’omonima installazione dello stesso autore. Nato come regista di video sciistici, Ruben Östlund è approdato al lungometraggio nei primi anni Duemila ed è subito diventato un protagonista dell’ambiente festivaliero. Il cinema di Östlund sembra prendere ispirazione dal suo stesso percorso registico, che dal mondo iper-commerciale del video sportivo l’ha portato a quello iper-intellettuale, apparentemente lontanissimo, dei festival cinematografici internazionali: entrambi gli ambienti hanno come minimo comune denominatore il denaro, vero protagonista di ogni aspetto della contemporaneità, dal più apertamente consumistico al più astrattamente artistico. La satira di Öslund colpisce proprio la dimensione di pretesa superiorità del mondo intellettuale, che nel suo cinema viene ridotto a una recita grottesca di uomini mediocri, inquadrati spesso da lontano, come fossero figurine che si muovono in ambienti tanto soverchianti quanto vacui.
In The Square, il mercato dell’arte era uno specchio del sempre più pervasivo strapotere mediatico della pubblicità e dell’elitarismo dell’alta borghesia intellettuale, ottusa quando non ipocrita di fronte alle diseguaglianze sociali. In Triangle of Sadness, i toni si fanno ancora più comici e la satira di costume più globale: il mondo della moda prende il posto del mercato dell’arte come mezzo per riflettere sui meccanismi che regolano la società contemporanea, in cui anche la bellezza è merce. L’analisi di Triangle of Sadness si inserisce in una prospettiva intersezionale e mostra tre livelli delle contemporanee dinamiche di privilegio ed oppressione, in cui il potere è sempre di natura economica: i belli (ossia coloro che convenzionalmente consideriamo belli) hanno più privilegi dei brutti, gli uomini – anche quanto non sembra – hanno più potere delle donne e i ricchi, ovviamente, attuano un’inevitabile oppressione nei confronti dei poveri. Il glamour della moda e l’intellettualismo dell’alta borghesia sono mere autogiustificazioni, discorsi autoassolutori e ridicolmente astratti che puntano a nascondere la natura gretta, meschina e patetica di uno storico privilegio estetico, sessuale e soprattutto economico. «Non è una questione di soldi», ripetono spesso i due protagonisti nella prima parte del film: secondo Östlund, invece, è sempre e solo una questione di soldi.
La critica sociale di Östlund, per quanto tenda sempre a sfumare in una parodia che ridicolizza tutti senza effettivamente accusare nessuno, risulta brillante nelle prime due parti, per poi perdersi in un atto finale tanto lungo quanto superficiale, in cui i concetti alla base del film sono ripetuti in modo così insistente e didascalico da passare dall’arguzia alla banalità. Östlund si limita infatti a riproporre il più classico degli scenari da ribaltamento sociale, finendo per far sembrare il film una versione più pretenziosa e meno graffiante di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, uscito ben quarantotto anni fa. Ruben Östlund, che distribuisce merchandise di film che criticano il consumismo e realizza satire del mondo artistico-intellettuale per il Festival di Cannes, sembra incarnare nella sua stessa figura autoriale le contraddizioni che caratterizzano i suoi film: diverte senza mettere effettivamente in dubbio nulla, diventa la stessa merce con pretese intellettuali che ridicolizza nelle sue storie, fa critica sociale rivolgendosi all’alta borghesia in modo abbastanza acuto da divertirla ma anche abbastanza surreale da non infastidirla. Regista interessantissimo più per le sue ipocrisie che per le sue tesi, intelligenti ma meglio espresse da altri autori, Ruben Östlund è un artista fondamentale per capire la contemporaneità, grazie ai suoi meriti ma soprattutto ai suoi limiti.