David Bowie è stato tante cose nel corso della sua esistenza. Cantante, polistrumentista, attore, ma soprattutto amante della vita in tutte le sue declinazioni. Talmente appassionato, coinvolto, curioso e desideroso di trovare il suo posto nel mondo, da rispecchiarne pienamente le continue mutazioni e il suo progresso. In Moonage Daydream, il nuovo documentario diretto dal regista candidato al premio Oscar Brett Morgen (Cobain: Montage of Heck), si sussegue quella che può essere definita un’esperienza cinematografica immersiva: un caleidoscopio di suoni, immagini, dipinti, sculture, mimi, confessioni e riflessioni. Nell’arco di due ore e mezza si viene trasportati in una vera e propria Odissea audiovisiva ai confini dello spazio, o meglio, un viaggio interdimensionale alla scoperta del mito di Bowie, della sua pesante e simbolica eredità, ma soprattutto della sua straordinaria attualità. E a guidare in questa avventura attraverso il grande schermo, non poteva che esserci David stesso. Il cantante britannico confessa il profondo senso di solitudine tanto sentimentale quanto artistica che lo ha accompagnato passo dopo passo nella ricerca di sé stesso.
Un desiderio di isolarsi e di alienarsi completamente per concentrarsi sui suoi pensieri e su quei quesiti che vengono implicitamente posti anche allo spettatore: «Tutto è transitorio. Mi importa?». La risposta non può che essere affermativa. Bowie non ha mai nascosto di aver utilizzato il suo corpo come un canvas sul quale proiettare tutto quello che sentiva di essere, godendo del presente e lasciandosi guidare dalle sue stesse pulsioni creative a trecentosessanta gradi. Da Ziggy Stardust, il rock messiah che faceva infiammare milioni di fan in tutto il mondo con il suo stile colorato, glam-rock e a tratti un po’ dandy, ad Alladin Sane, passando per Halloween Jack, Nathan Adler e l’altrettanto iconico The Thin White Duke. Moonage Daydream ne ripercorre la carriera magistralmente, condividendo dei filmati di repertorio inediti che attraversano l’Inghilterra, gli Stati Uniti (da lui tanto disprezzati) e Berlino, il fulcro del suo lavoro più sperimentale con Brian Eno. Non mancano i riferimenti al suo processo creativo, come la stesura dei testi di quelle canzoni che oggi sono diventate una parte integrante della cultura globale e che ai tempi venivano prontamente scomposti per stimolare ulteriormente l’immaginazione dell’artista.
L’isteria collettiva che pervadeva l’atmosfera dei suoi concerti e le diverse interviste messe a punto dalla stampa internazionale, tanto desiderosi di scavare nell’anima di David Robert Jones con la speranza di scoprire chi si celasse veramente dietro la sua persona, sono solo la punta dell’iceberg di un universo sfaccettato, stratificato e prontamente narrato attraverso i suoi brani più iconici, da Space Oddity a Heroes. Il pregio più grande di un artista di grande spessore e carisma come David Bowie, è quello di non essersi mai accontentato. Si è sempre spinto oltre le sue capacità, rendendo possibile ciò che per molti sembrava impossibile. Ci ha ricordato che possiamo essere tutti Major Tom, fluttuanti nello spazio, con il rischio di perdere il controllo su noi stessi e con uno sguardo rivolto verso la Terra. Qual è il mio ruolo nella società? È la domanda con la quale dobbiamo fare i conti quotidianamente, provando a «spingerci oltre, se sentiamo la terra mancarci sotto i piedi. Vuol dire che ne vale la pena». Per il Duca Bianco è stato fondamentale percorrere quella strada e utilizzare tale chiave di lettura per dare un senso al tempo (limitato) che ci viene offerto. E proprio per questo motivo forse è stato veramente il Messia del rock novecentesco, profetico in ogni sua parte.