Ogni giorno in qualche garage sperduto nel mondo nasce almeno una band formata da ragazzi coi capelli lunghi, maglie oversize e tanta voglia di emulare i Nirvana. Nella scaletta della loro prima uscita in un pub − che non gli darà cachet − c’è probabilmente Smells Like Teen Spirit o Lithium. Oggi quel che resta di quel sogno americano, che consiste nel poter far musica contro tutti i concetti precostituiti di estetica, si chiama Dave Grohl, che per inciso era proprio il tipo dedito a torturare la batteria di quella band il cui nome si scrive Nirvana ma si pronuncia grunge. Perché è chiaro che questo genere, ormai chimera del rock & roll, sia stato portato ad un livello elitario principalmente dalla band di Kurt Cobain.
Dave ne ha fatte altre cento da allora: ha cantato con qualsiasi artista vi possa venire in mente, ha scritto, suonato, arrangiato e prodotto pezzi che ha poi consegnato alla storia della musica. Il suo progetto di home recording fa invidia alla maggior parte degli studi worldwide e, assurdo a credersi, ha dato vita ad un processo produttivo minuzioso e attento che quasi ci si scorda la sua anima grunge fatta di improvvisazione e workflow maldestro. Cobain suonava a malapena la chitarra e la sua voce, pur avendo (personalmente) il timbro più bello della storia della musica, non era affatto allenata. Grohl invece è un’orchestra fatta persona, quasi una one man band che pianifica ogni aspetto della sua musica sporcandocisi le mani. Ma alla base di tutto c’è quell’intenzione che si esplica in Nevermind e in tutti gli album dei Foo Fighters: la voglia cioè di parlare alle persone, di mettersi su una chaise longue fatta di luci e led per raccontare la propria verità ai milioni di psicoterapeuti (non di professione) che pagano un biglietto e fanno ore di fila per compartecipare alla celebrazione di un rito. Quando sul palco sale quest’uomo, infatti, è come se si stesse partecipando ad una liturgia dove anziché inginocchiarsi, si poga e si versa sudore.
Ma Dave Grohl è anche altro: è quel frontman che si distrugge una gamba, rassicura i propri fan, raggiunge l’ospedale – dove gli mettono un tutore provvisorio – e torna (probabilmente con qualche antidolorifico in circolo) per concludere il concerto. È anche l’anti divo che risponde con commozione e in un italiano assai discutibile ma simpatico, alla richiesta di un gruppo di mille musicisti di fare una data a Cesena con i Foo (e ci andrà, ovviamente). Grohl dunque non è soltanto il testimonial di un certo tipo di musica, ma anche di un certo tipo di vita: per lui Kurt era tutto, e infatti ogni qualvolta viene a mancare un grande della musica, al funerale tutti cercano un suo sguardo e lui di strappare un sorriso. È successo per Chris Cornell, amico e frontman degli Audioslave, è successo per Frank Zappa, indiscusso e indiscutibile simbolo del rock. Oggi è un attivista impegnato e un testimone, insieme per esempio a Bono degli U2, di un nuovo modo di raccontare e rappresentare il rock & roll molto più responsabilmente e coscientemente, senza tuttavia limitare le performance e la caratura degli show offerti.