dark mode light mode Search Menu
Search

“Non aprite quella porta” subisce la maledizione del fan service

David Blue Garcia e Fede Alvarez tornano sulle strade di campagna assolate del Texas, mettendosi sulle tracce di Leatherface nel sequel diretto di Non aprite quella porta di Tobe Hooper. Questo film targato Netflix, che porta lo stesso nome dell’antenato, è un ulteriore capitolo che si aggiunge alla saga e che, come altri prima di lui, si erge a sequel diretto di una delle colonne portanti dell’horror: a precederlo, infatti, troviamo i vari ScreamVenerdì 13 e Halloween. E proprio con questa saga, iniziata da John Carpenter, il nuovo episodio del “massacro della motosega” si possono trovare parecchi punti in comune. Entrando nel vivo della storia, che non perde di certo tempo a cominciare ma anzi dà allo spettatore pochi minuti per ambientarsi e capire cosa lo attende, i brutali assassinii di Leatherface sono immediati: la sua smania omicida non si è placata neanche dopo cinquant’anni, e continua a dare la caccia a tutti quei giovani scapestrati che, con insolenza, osano violare la purezza e l’immutabilità della sua dimensione domestica.

Il killer si muove all’interno di un universo sparso di citazioni, specialmente al primo film, in una vera e propria operazione nostalgia che tutti i fan della saga non potranno non apprezzare. Tuttavia, non bastano il fan service e una buona regia a fare un bel film: nonostante infatti la sceneggiatura sia prevedibile – specie nel telefonatissimo (letteralmente) ritorno della prima superstite Sally Hardesty, come Laurie Strode/Jamie Lee Curtis negli ultimi Halloween – come solo quelle degli slasher splatter sanno essere, i personaggi manca anche una minima caratterizzazione dei personaggi, che sono soprattutto i classici protagonisti stupidi dei film horror. Non che ci sia nulla di male, specialmente se si sceglie di guardare il film in compagnia di amici, ma il leitmotiv risulta alla lunga prevedibile e poco godibile. Lo stesso Leatherface, se si è fan dei film dell’orrore, sembra una scopiazzatura del Michael Myers di Halloween – The Beginning di Rob Zombie con qualche accenno a Norman Bates: probabilmente l’intento di Garcia era quello di riportare in auge un serial killer iconico della storia del cinema, ma forse non era questo il modo adatto, soprattutto considerando che Leatherface non ha certo bisogno che la sua maschera venga rispolverata per ricordarsi della sua esistenza e della sua celebrità. Di quello originale restano la motosega e la macabra danza che infesterà per sempre gli incubi della final girl, legata a doppio filo dal killer e dalla sua influenza nella propria vita.

E proprio di quest’ultima, Layla, che va a sostituire Sally Hardesty, quasi liberandola dalla maledizione di Leatherface, si sa poco nonostante le informazioni che il regista ci fornisce: superstite (unica? Non ci è dato saperlo, e non si può così spiegare il suo velato senso di colpa relativo alla propria sopravvivenza) di una sparatoria nel liceo, la ragazza sembra avere un rapporto in fase di ripristino con la sorella, un po’ come in Fear Street: 1978, anch’esso prodotto Netflix. Forse sta proprio in questa familiarità il difetto più grande di questo film: si vede che è un prodotto realizzato dal servizio streaming e perciò non riesce a ingranare appieno, a essere come si propone il degno successore del film di HooperNon aprite quella porta, anche a causa del trademark di Netflix, è l’ennesimo prodotto superficiale e adolescenziale della piattaforma, che non apporta nulla in senso di originalità né di utilità alla saga originale, tantomeno all’universo cinematografico horror, con la conseguenza di appassirlo e ridicolizzarlo sempre di più. Come cantava Arisa a Sanremo 2021: potevi fare di più.