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Spesso le cose sono diverse da ciò che sembrano. Al contrario però si potrebbe affermare che fortunatamente alcune cose sono molto di più di ciò che possono sembrare inizialmente. È il caso del nuovo album di LP, Churches, con il quale la cantautrice italo-americana torna sulle scene a tre anni da Heart to Mouth. A un primo sguardo i titoli dei brani raccolti al suo interno fanno pensare a un riferimento religioso-spirituale (Safe Here, Churches, Angels), l’ascolto però ci catapulta in un mondo molto più ampio, dove il vero credo da professare è l’amore per l’amore stesso, onnicomprensivo e inclusivo. «Potrebbe sembrare un album religioso a primo acchito – ci dice in collegamento Zoom da Los Angeles – ma la religione in sé è un po’ troppo rigida per quanto mi riguarda. Sono una persona religiosa, a mio modo, e credo che Dio sia una componente molto grande del perché io sia qui adesso e stia facendo ciò che sto facendo. Mi sento connessa a qualcosa di superiore ma, al tempo stesso, ritengo sia necessario scindere il concetto di Dio da quello di religione, nel nome della quale penso siano state fatte cose molto distanti dal concetto di amore che dovrebbe professare. Credo molto nella libertà personale di ogni individuo: la religione può davvero dare conforto ma quello che personalmente volevo comunicare era un concetto di Chiesa inteso come un posto dove c’è spazio per tutti».

Oltre al concetto di amore, anche il tempo è un argomento ricorrente all’interno di quest’album.
Molti dei brani sono nati durante il lockdown, durante il quale tutti abbiamo sperimentato qualche tipo di perdita. Volevo parlare di questo, di quanto fragili possano essere i momenti a nostra disposizione e di quanto sia necessario coglierli e renderli preziosi. Il risultato è un album molto diverso da quello che avrebbe potuto essere se fosse nato alla fine del 2019.

Questo si nota molto all’interno dei versi che canti. Si nota un alternarsi di momenti di fragilità ad altri di estrema forza, il che si riflette anche nei timbri vocali, nei cori e nelle melodie. È come se la musica fosse un diario personale, che come tale non ha un andamento regolare: ogni tanto le cose vanno e ogni tanto invece no.
È esattamente così, ascoltare Churches è come sfogliare un diario dei ricordi. Conversation, ad esempio, l’ho scritta alla vigilia della mia partenza in tour e parla della rottura con la mia fidanzata. Riascoltandola oggi riesco a ricordare esattamente come stavo e cosa provavo mentre la scrivevo; sai, quella tipica sensazione post rottura in cui ti dici che andrà tutto bene.

In Rainbow invece c’è questo alternarsi di nuvole, pioggia e poi arcobaleni.
Credo che Rainbow sia una delle canzoni più tristi che abbia scritto ma spesso capita proprio questo: che ai momenti più bui si accompagnino i suoni più dolci, come gli arcobaleni dopo un acquazzone. Amo giocare in questo modo con la mia musica, quasi per ossimoro: mi piace alternare cori e voci quasi angeliche a parole e concetti più forti.

Ultimamente si è parlato della riproduzione casuale dei brani su piattaforme come Spotify e alcuni artisti, come Adele, si sono detti contrari. Tu come la vedi?
Noi ci siamo veramente impegnati nel dare il giusto ordine ai brani e raccomanderei caldamente di ascoltare Churches seguendolo, ma alla fine dei conti ognuno è – e deve essere – libero di fare come preferisce. Credo che Adele abbia avuto un’ottima idea però, nel mio caso, in qualsiasi modo le persone vogliano ascoltare Churches, a me andrebbe bene. In fondo ritorna tutto a quel concetto di libertà di cui parlavamo all’inizio, non credi?


Intervista di Cecilia Fefè
Foto di Ryan Jay