Quando dico il nome della testata, Silvano (da questo momento Coez) inizia ad intonare il capolavoro di McCartney. Che tu sia un artista oppure no, a meno che non abbia passato l’intera esistenza chiuso in una qualche caverna o in una capsula dispersa nello spazio, i Beatles sono sempre un’ottima moneta di scambio, se capite cosa intendo. Diciamo pure una garanzia, ecco, per entrare subito in empatia. Che poi, a pensarci bene, in Volare, il nuovo disco di Coez, c’è una citazione ad Hey Jude: nella barra di Salmo, dentro Crack, pezzo realizzato a sei mani con Massimo Pericolo (“Certe tipe sono in cerca di una spinta in più/Te le spingi soprattutto se hai la spunta blu/Lei mi stringe più forte per portarmi giù/Hey Jude, sto piangendo sopra il latte più”). Il disco, il sesto da solista al di fuori del percorso con i Brokenspeakers, segna un cambiamento profondo nella vita del cantautore che, a 38 anni, ha trovato un punto di equilibrio.
Spesso quando parli con un artista che ha un album in uscita capita di sentir dire «io mi sono rotto le palle di questa roba, la ascolto da un anno». Sentendoti parlare di Volare, invece, mi sembra che con te non sia successo.
Avendo avuto tanto tempo e avendo fatto molte modifiche rispetto all’idea iniziale, dentro Volare ci sono tutti pezzi che al momento non mi hanno ancora stancano. In generale, però, capita di riascoltare i vecchi lavori e ti maledici per aver inserito alcuni brani. Quando un disco esce e diventa di tutti è il momento in cui l’artista spesso non lo ascolta più, anche perché altrimenti sarebbe un po’ innaturale. Quindi è vero che non mi sono stancato di questo disco ma è anche vero che non lo ascolto più come prima, anche se quando partono i pezzi mi dico ancora: “Oh, ammazza”.
L’ultima volta che l’hai pensato?
Oggi mentre ascoltavo Occhi rossi. Alla fine è un piano-voce, ma il modo in cui è stata trattata la voce mi porta in un sound nuovo. Il sound del disco, rispetto ai precedenti, forse osa un po’ di più e questa cosa la vedo come un passo in avanti.
A proposito di Occhi rossi, ero certa che la scelta del singolo sarebbe ricaduta su questo brano, invece hai tirato fuori Come nelle canzoni.
Con Come nelle canzoni ho chiuso la trilogia iniziata con La musica non c’è e È sempre bello, brani a cui va riconosciuta una potenza comunicativa particolare. Però voglio sfatare un mito: non sempre i pezzi che preferisco poi li facciamo uscire come singoli. Ad esempio, del disco che feci con Riccardo Sinigallia (Non erano fiori ndr.), il brano che preferivo era La strada è mia e credo sia il mio pezzo meno streammato di sempre.
È stato un lavoro lungo?
Per fare questo disco ci abbiamo messo due anni. Sono arrivato in studio con qualcosa come trenta brani, molti dei quali in un primo momento credevo potessero essere dei singoli forti mentre poi, strada facendo, li abbiamo mollati.
Nel complesso, mi sembra un disco più estremo del precedente. Come vivi la consapevolezza di tornare con un disco distante dal Coez degli ultimi lavori?
Ieri, parlando di questo disco, pensavo che alla fine è un sunto di tutto quello che ho fatto sino ad oggi. È uno di quegli album che devi ascoltare per intero per capirne il significato più profondo, d’altronde far coesistere due pezzi come Wu-Tang e Occhi rossi non è uno scherzo, però se avviene in maniera naturale vuol dire che evidentemente sono nelle mie corde tutti i brani che ho inserito.
Wu-Tang ad esempio è uno di quei pezzi che è lontano dal Coez degli ultimi dischi.
La prima persona a cui ho fatto ascoltare Wu-Tang è stato Salmo perché quando sono andato a vedere il suo live lui partiva con 90MIN, che ha una canna particolare e devo dire che ho avuto un po’, non voglio usare il termine invidia perché è bruttissimo, però mi ha fatto venire voglia di tirare fuori un pezzo comunque prorompente. Che poi non c’entra niente col suo pezzo, però mi gasava l’idea (segue spoiler ndr.) di aprire il concerto con un pezzo un po’ più energico.
Questo disco è anche il risultato di un cambio di ascolti musicali?
Più che un cambio di ascolti, c’è stato un cambio di team di lavoro. Avendo finito il percorso con Niccolò Contessa, che poi è forse anche quello il motivo per cui negli ultimi anni sono stato etichettato come “artista indie”, lui è un po’ il padre di quella corrente là, ho deciso di strutturare un disco più americano, che suonasse un po’ come un ritorno al rap. Però gli ascolti che avevo durante È sempre bello, li ho tutt’ora. Semplicemente, questo album va in un’altra direzione.
Lo spiegavi qualche settimana fa su Instagram ad un fan che cercava il “vecchio Coez” nei nuovi brani: gli artisti sono proiettati sempre al futuro ma spesso il pubblico è legato al passato. Ti tormenta questa cosa?
Le canzoni e i dischi in genere sono fatti a strati e non tutti ne percepiscono la profondità allo stesso modo, quindi non mi aspetto mai che tutto il pubblico capisca quello che faccio. Ad esempio, nel tour di Faccio un casino, vedevo i club svuotarsi dopo che cantavo La musica non c’è, però vedevo anche i fan, quelli che sanno da dove vengo e che conoscono il mio percorso, pogare sui brani più datati.
Dovresti organizzare un tour e mettere in scaletta solo b-side.
Sai quante volte avrei voluto suonare pezzi che a me piacciono tantissimo ma che non posso portare dal vivo? Quindi ogni tanto ci penso a fare un tour per quelli che apprezzano più le cose underground, di nicchia, che dentro i miei dischi ci sono sempre state.
Andrai mai a Sanremo?
Io non sono cresciuto col mito di Sanremo anche se non nego di aver mandato in passato dei pezzi (La musica non c’è e Faccio un casino ndr.) che mi sono stati rimandati indietro. Con il senno del poi, sono contento sia andata così.
Tornando al disco, anche Crack con Salmo e Massimo Pericolo suona un po’ come un ritorno alle origini.
Crack è nata durante il secondo lockdown, Alessandro (Massimo Pericolo ndr.) e Maurizio (Salmo ndr.) sono venuti a casa mia e l’abbiamo scritta insieme, nella stessa stanza. È un pezzo ironico dove c’è una citazione de L’odio sul ritornello (“Baby, mi fai più del crack/È che non lo sai/Ho detto “cazzo, che botta”/Che botta mi dai/L’avrò guardata, sì ma/E che sarà mai/E dai non fare la stronza o mi metto nei guai”, canta ndr.) che è uno dei film col quale sono cresciuto. E poi c’è una frase (“cazzo che botta” ndr.) che dice Uma Thurman in Pulp Fiction.
Ascoltandoti parlare, ho la sensazione che questo disco sia un grande vaffanculo alle logiche dell’industria musicale. Sbaglio?
Flow Easy l’ho fatto uscire alle quattro e venti di un mercoledì proprio perché volevo distaccarmi dalla logica che tutto deve essere pubblicato il venerdì a mezzanotte. Ora addirittura si esce all’una di notte per non perdere quel tot di views della prima ora. Abbiamo reso il pubblico automatizzato e appena sposti una virgola, la gente ti chiede «ma perché esci a quest’ora?».
Anche il tour nei club segue un po’ questa logica?
Vengo da un tour nei palazzetti andato particolarmente bene, ma la cosa che un pochino mi è mancata è il contatto con le persone. Ecco: questa roba del contatto col pubblico ce l’avevo in testa da tanto e il nuovo disco mi ha spinto a tornare ad esibirmi dove tutto è iniziato. Poi c’è da calcolare che i live nei palazzetti saranno una delle cose più inflazionate di questa nuova era musicale e alla fine, andranno a sbattere tutti là. Io comunque non ho problemi a tornare nei club, tra fare l’Alcatraz o un palazzetto, non dico che sia la stessa cosa, però almeno i miei musicisti e tutto l’entourage guadagnano il triplo. Poi chiaramente dovrò fare anche tutte le altre date.
C’è nel disco lavoro una canzone che ti racconta come Niente che non va?
In quel pezzo c’era tanto di me, mentre in Volare il racconto è distribuito in tutto l’album. Avevo fatto all’epoca un album diverso, venivo da Non erano fiori e volevo fare un disco un pochino più solare per paura di venire etichettato come quello “dei pezzi depressi”. Quindi, un po’ per rigetto, ho fatto dei pezzi un po’ più presi bene, tranne appunto Niente che non va, in cui ho messo la mia parte più intima.
In apertura dici: “Sorry ma’/Stavo nuotando fra gli squali ma per arrivare qua”. In che senso?
Gli squali sono più che altro le lotte che devi fare nella vita. Poi dico anche: “Il paradiso non esiste, però l’inferno cazzo se ci sta”. Alla fine, l’inferno è un po’ come gli squali: sono le difficoltà della vita.
E il paradiso?
Io non credo tanto nelle isole felici. La vedo un po’ come come in The Beach (il film di Danny Boyle con Leonardo DiCaprio ndr.); ecco, quel film è una metafora per descrivere parecchie cose. Ok creare una propria isola felice per staccarsi e non essere connessi col mondo, ma a che prezzo? È sempre meglio sottoporsi a un po’ di sofferenza, piuttosto che chiudersi totalmente. Non c’ho mai pensato, però forse la intendo così.
A che punto sei della tua vita?
Sono a un punto di svolta, sicuramente: tutta la mia vita fino ad un paio di anni fa si basava sul pensare ad arrivare ad un punto. Arrivato a quel punto, però, mi sono accorto che avrei dovuto pensare ad un dopo. Quando metti la tua testa e tutte le tue energie per arrivare a qualcosa, non pensi che c’è un dopo. Io adesso sono nel dopo. Però per arrivare a capire che una volta raggiunto un risultato c’è da pensare al passo successivo, onestamente un pochino c’è voluto. Adesso comunque l’ho capito e sto in forma.
Intervista di Cristina Torti
Contributo di Simone Mancini e Emanuele Camilli
Digital Cover di Jadeite Studio