Parlare di un film come È stata la mano di Dio non sarà semplice. Fondamentalmente, per due motivi: la complessità di forma e contenuto del cinema di Paolo Sorrentino, che lo rende uno dei migliori registi italiani contemporanei, meriterebbe un saggio a parte; in secondo luogo, le emozioni che questo film è riuscito a farmi provare mi impediranno di scrivere in maniera imparziale. La visione dell’ultimo film del regista partenopeo è stata come un viaggio nell’ippocampo iniziato con i ricordi della mia infanzia e conclusosi con quelli della mia adolescenza, fatta di insicurezze, aspirazioni e conflitti. Quello di Sorrentino è a tutti gli effetti un film di formazione totalmente autobiografico, nel quale il giovane Fabietto Schisa (Filippo Scotti) diventa l’alter ego del regista. Sorrentino dirige il suo film più intimo e personale e lo fa, ovviamente, ambientandolo nella sua città natale: Napoli.
L’esigenza di un ritorno alle origini sembra continuare quel discorso nostalgico ed elegiaco introdotto ne La grande bellezza, film che valse l’Oscar a Paolo Sorrentino. Lo stesso Jep Gambardella potrebbe essere l’ormai cresciuto Fabietto Schisa, partito in adolescenza da Napoli per la caotica capitale alla ricerca del successo come regista/scrittore. Entrambi i personaggi, come lo stesso Sorrentino, esprimono la necessità di un ritorno al passato e l’importanza delle proprie radici in maniera del tutto poetica e commovente, che si traduce in una vera e propria dichiarazione d’amore al cinema e alla città di Napoli. Sorrentino si mette a nudo al cospetto dello spettatore per presentare, tramite gli occhi di Fabietto, tutto ciò che in adolescenza lo ha segnato, dall’avvento celestiale di Maradona a Napoli alla morte dei genitori avvenuta nella tenuta di Roccaraso. Esperienze, traumi, pulsioni sessuali e incontri, in particolare quello con Antonio Capuano (Ciro Capuano): tutto ciò viene inciso e mostrato da Sorrentino con l’eleganza nei movimenti di macchina alla quale ci ha abituato nel corso dei suoi vent’anni di carriera ma con la malinconia che non aveva mai fatto emergere.
Una malinconia che si colora di azzurro: l’azzurro del mare e del cielo del Golfo di Napoli, della casacca partenopea e della maglia dell’Argentina campione del mondo nel 1986 guidata da Dio. Sorrentino ha contemplato per anni quel mare azzurro pieno di ricordi sul soffitto sognato da Jep ne La grande bellezza e ha deciso di tuffarsi; è quasi come se avesse finalmente ascoltato le parole che Antonio Capuano, suo mentore nel film e nella vita vera, dice al giovane Fabietto: «Ma è mai possibile che ‘sta città nun te fa venì in mente niente ‘a raccuntà?». Insomma, È stata la mano di Dio può essere considerato L’amarcord di Paolo Sorrentino; ciò che riuscì a fare Federico Fellini nel suo capolavoro del 1973, raccontando la Rimini della sua gioventù elevandola a protagonista della pellicola, è stato il traguardo raggiunto dal regista partenopeo nel raccontare la vita, i volti, le emozioni e le tradizioni della sua Napoli.