Lo spettacolo si apre su una lunga carrellata di immagini di Charlie sui maxischermi. Una carrellata lunga e bella: Charlie sempre sorridente, in ogni occasione di vita e musica, giovane e anziano. Orbene, quel poco che si ricorda del giovane e quel tanto che abbiamo vissuto di quella bella ed eterna anzianità (noi, che siamo fan dai primi Ottanta per ragioni anagrafiche, lo ricordiamo sempre meravigliosamente vecchio). Questa carrellata emotiva di immagini, però, subito fa pensare al doppio significato che ha. Per forza e oggettivamente. L’omaggio – dovuto e inevitabile – ed il messaggio chiarissimo: qui si va avanti comunque. E inizia lo spettacolo nel solito modo di sempre, con le inconfondibili schitarrate di Keef. Ma da qui in avanti stupiscono solo gli effetti speciali, il mega palco, la bravura dei musicisti e dei coristi a supporto, anche se un discorso a sé stante va fatto per Steve Jordan, il quale, pur mettendoci della grande professionalità, è involontariamente l’artefice principale della fine della magia.
Il suo è un drumming solido e coerente, non inutilmente tecnico ma di grande presenza. Le cose fatte con Keef solista sono state indubitabilmente egregie. Solo che non ha le caratteristiche di Charlie (il ritardo sul charleston e l’anticipo sul rullante, per farla oltremodo semplice, il non toccare il charleston quando suona il rullante, il fare variazioni prevalentemente di tamburi suonando poco i piatti) e, benché tenti invano di riprodurle, a tratti, il risultato è disastroso. La prova zoppicante della mancanza di affiatamento che si percepisce, perfida e imbarazzante, nell’aria. D’altra parte l’affiatamento coi “difetti” di Watts non è una cosa che crei in un attimo, ma con decenni e milioni di chilometri di musica suonata assieme. Il resto è un Richards che, vero, sorride ogni tanto, ma vaga spaesato per il palco, Wood che forse è quello che ormai se la spende meglio (peraltro ha dato appena ora alle stampe un proprio live blues stupendo) e Mick che sembra una propria caricatura poco convinta ed ha ormai quattro note di estensione vocale: le note alte gliele “tamponano” tutte i cori, e le medie il più delle volte le cala o le evita col mestiere. Neanche pescare qualche chicca dal passato remoto aggiusta le cose.
Senza l’eleganza innata di Charlie, gli altri tre, che prima apparivano come simpatici ragazzacci scappati da casa, ora sono a un minimo passo dall’essere patetici. Era il principio dei vasi comunicanti: ci voleva un Lord come Watts a bilanciare le cose e portare tutto in quella nuvola eterea, misteriosa e profondamente rock che per anni son stati gli Stones. Un tour che non era da fare. Le scuse addotte: far lavorare la crew (nobile ma falsina, ed in più tipicamente “passiva aggressiva”, col suo implicito “oserai mica contraddire?”) e le penali. Sulle penali concedetemi una deformazione professionale: gli Stones sono una parte contrattuale talmente forte che, fossero davvero le penali la causa del tour, semplicemente i tre dovrebbero cambiare avvocati. Keith Richars, il più sensibile del gruppo, ha sempre sostenuto che «gli Stones sono Charlie Watts». E già lo diceva da giovane. Forse nel suo intimo sa che aggirarsi oggi, quasi come un fantasma, su quel palco miliardario, era una cosa da evitare.