Intervistare Stevie Van Zandt, aka Little Steven, è al contempo un viaggio nel tempo ed un’esaltazione del presente. Stevie è il nostro passato. Un passato impensabile oggi, quando in discoteca passavano (e noi ballavamo) anche brani impegnativi come Bitter Fruit o quando si andava ai concerti di Springsteen anche per sentire le mirabolanti e folli seconde voci di Stevie. Ma è anche il presente di un frontman e un chitarrista che non molla di un millimetro la sua missione. Little Steven è un uomo che ama la musica e dimostra questo amore in ogni modo: come spalla ad uno dei più grandi performer della storia (così riconoscendo l’altissimo valore del ruolo del gregario), come leader dei Disciples Of Soul, che fanno della musica americana il loro faro e la loro meta (dentro la loro musica c’è tutto: Motown, soul, blues, gospel e rock) e come deejay radiofonico che diffonde da anni il verbo della grande musica americana in giro per il mondo. Tutto questo (e molto altro) è racchiuso nella sua autobiografia, Memoir. La mia odissea, fra rock e passioni non corrisposte, e in questa intervista ci ha raccontato i suoi 48 anni nell’industria del rock & roll.
Come mai questa autobiografia?
È un po’ complicato da spiegare. Io sono stato molto fortunato nella vita: sono stato il più fortunato del mondo, la mia generazione è stata la più fortunata. In generale, ho avuto molto successo nella vita, ma i miei lavori più personali non hanno mai avuto un audience. Quando ho abbandonato la E Street Band la mia vita, così come la conoscevo, è finita. Fino a quel momento avevo dedicato tutto me stesso al rock & roll, ma tutto ciò che sono, l’ho ottenuto dopo aver lasciato la band. È stata una sorpresa per me perché non c’era nulla di pianificato. Sono passato dal non avere più una vita, a dover trovare nuove strade per raggiungere i miei obiettivi.
Quindi è una sorta di libro motivazionale.
Io credo che tutti nella vita, prima o poi, arrivino ad un punto in cui devono trovare nuove ragioni per andare avanti. Chi non ce la fa spesso finisce nel baratro, ma se ci riesci, allora trovi il tuo destino. Spero questo libro possa essere d’aiuto: la prima parte parla del rock & roll, che è già miracoloso di suo, ma è nella seconda parte, quando racconto della rottura con la E Street Band, che l’avventura ha veramente inizio. Si parla di ciò che viene dopo, di temi universali, della ricerca della propria identità, della spiritualità, di se stessi.
A proposito della rottura con la E Street Band, abbiamo letto dei diverbi col Boss durante quel periodo, ne sono seguiti altri?
Sì è capitato, ogni tanto abbiamo qualche incomprensione, ma poi passiamo subito oltre. Comunque di solito non durano più di una settimana (ride ndr.).
Se mia figlia mi chiedesse di sintetizzare la musica americana, le farei ascoltare i dischi live dei Disciples Of Soul. Farei bene?
È una domanda a trabocchetto? (ride ndr.)
No, lo penso veramente.
La musica americana ha un archivio sconfinato. Puoi partire da lì, dai nostri dischi live, per poi andare a ritroso ascoltando gli album che hanno aperto la stagione del soul, fino ad arrivare a tutte le più grandi band degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, i dischi della Motown Records (The Miracles, Marvin Gaye, Mary Wells ndr.), Sam & Dave, Otis Redding. Per comprendere qualcosa nel profondo, bisogna sempre tornare alle origini, ai grandi maestri.
Nel libro esprimi un grande amore per la musica dei Beatles, che definisci il tuo «big bang musicale». A loro hai dedicato anche un piccolo gioiello di disco live con ospite McCartney. È sempre immutato il tuo amore per loro?
Il mio amore per i Beatles non cambierà mai ed è stato un grande onore avere Paul McCartney. Sai, avevo già condiviso il palco con lui quando suonavo per Bruce, ma quella volta era proprio il mio palco. Lui è uno dei miei più grandi eroi, perciò il concerto al Roundhouse resterà uno dei momenti più belli della mia vita.
Jon Landau vide in Springsteen il futuro del rock, tu vedi qualcosa o qualcuno di simile all’orizzonte?
Oddio questa è difficile (ride, ma non troppo ndr.). Nel mio programma radiofonico (Underground Garage ndr.) negli ultimi vent’anni anni abbiamo introdotto circa un migliaio di nuove band. Siamo in cento Paesi e il format è passato anche a Radio Flash, un’emittente di Torino. Vi rendete conto? Mille nuove band emergenti? Quindi sì, c’è sicuramente un futuro. Però non credo che ci sia un nome in particolare che mi faccia pensare al futuro del rock & roll, ma già il fatto che ci siano così tante band emergenti che si cimentano in questo stile, per me è già un miracolo.
Temi che l’industria del rock possa un giorno morire?
Quell’industria è praticamente già morta: se scorri le principali classifiche è evidente che del rock non ce n’è più traccia, anche perché sono pochi i grandi artisti che oggi pubblicano brani che potremmo definire rock. Temo che sarà difficile assistere ad un ritorno del rock e di conseguenza, sarà difficile immaginare che qualcuno, così all’improvviso, possa diventare ciò che siamo stati noi per il rock negli anni Settanta e Ottanta. Siamo stati molto fortunati, la nostra generazione è stata molto fortunata.
Cosa farai nei prossimi mesi?
Ho in serbo un paio di cosette interessanti, potrei tornare sul piccolo schermo con qualche show televisivo e poi il prossimo anno, se Bruce vorrà (l’intervista è stata fatta ad ottobre 2021 quando ancora non era stato annunciato il tour mondiale di Springsteen ndr.), partirò in tour con lui. Abbiamo tutti una gran voglia di suonare dal vivo Letter To You (l’ultimo album in studio di Bruce Springsteen con la E Street Band ndr.).
Se partirete, passerete dall’Italia?
Ma mi prendi in giro? Come potremmo mai saltare l’Italia? A proposito, hanno già chiuso San Siro?
No, ancora è lì.
Menomale. Dovreste far partire una petizione per assicurarvi che non lo chiudano, perché ci vogliamo tornare.