La casa di carta è un po’ come la Democrazia Cristiana: nonostante sia quasi impossibile confessare di apprezzarla senza perdere credibilità cinematografica/seriale, da ormai quattro anni è uno dei prodotti di punta della piattaforma più popolare del globo e quando un nuovo capitolo (o forse stagione? Parte? Parte di stagione?) esce, anche molti dei più accaniti detrattori se lo bevono in pochi giorni – per parlarne male, certo, ma comunque per parlarne. Sembra che, tra i numerosissimi spettatori della serie, ci sia una frattura sempre più forte tra chi la sostiene e chi la guarda per dare la caccia ai buchi di trama e lamentare sul web la decadenza di Netflix, ed è questa frattura a rendere La casa di carta uno dei prodotti più inspiegabilmente divisivi degli ultimi anni. L’inspiegabilità è data dal fatto che si tratta di una serie fondamentalmente mediocre, che sa intrattenere chi si appassiona alle dinamiche dei personaggi, non ha colpa se mezzo mondo ha gridato al capolavoro dopo le prime due stagioni e ha il merito di uscire da un contesto produttivo, quello televisivo spagnolo, che prima di sfornare una serie al mese per Netflix non aveva mai raggiunto risultati più notevoli de Il segreto – noi in Italia ci lamentiamo a buon diritto, ma Romanzo criminale, va detto, ce l’abbiamo da più di dieci anni.
Dopo due stagioni (in realtà una) lacunose ma tutto sommato tollerate anche dagli haters più infuocati, la terza segna l’inizio di una decadenza che nella quarta diventa imbarazzante: la produzione, che non riesce a nascondere l’unico motivo che ha portato alla continuazione di una serie ideata come autoconclusiva, fluttua tra un fanservice sfrenato di cui Berlino coprotagonista è solo l’aspetto più evidente, velleità sociopolitiche che lasciano il tempo che trovano e un sentimentalismo sempre più destabilizzante. Ancora si riusciva a tollerare la terza, che ha avuto comunque il merito di concedersi una regia a tratti apprezzabile – cosa mai accaduta nelle stagioni precedenti e mai ripetutasi in quelle a venire – e di introdurre un personaggio interessante come Palermo. Nella quarta una sceneggiatura disastrosa ha portato alla vera tragedia, ovvero una perdita di interesse da parte del pubblico che, oltre a una sola morte, tra l’altro preannunciata e spoilerata dal primo giorno di messa in onda, non è rimasto colpito da nient’altro.
Arriviamo quindi a questa nuova mezza stagione, per la quale, con una dinamica che a chi scrive ha subito ricordato Boris, gli sceneggiatori sembrano aver abbracciato “la locura”. Quello che era stato il momento più basso delle prime due stagioni, ovvero la famigerata moto di Tokyo, diventa il punto di riferimento di una serie che ha ormai accettato di non essere Breaking Bad e ha deciso, in modo azzardato ma tutto sommato vincente, di puntare tutto su quella che è sempre stata la sua forza, vale a dire il divertimento della numerosissima e, che piaccia o no, fidelizzatissima fanbase: allora avanti con figli che sbucano fuori dal nulla, dialoghi sentimentali con tanto di musica strappalacrime in mezzo alle mitragliatrici, lanciafiamme e camionette blindate nelle mani dell’ormai proverbiale Arturito, granate afferrate e rilanciate indietro con movenze da Naruto, discorsi motivazionali (in)volontariamente comici e chi più ne ha più ne metta. La trama ha smesso di essere importante tempo fa e ora che tutti, veri fan e detrattori fidelizzati, ne abbiamo preso atto, possiamo goderci senza sensi di colpa le gesta del Professore e della sua banda, che nel finale riescono a raggiungere il loro obiettivo, ovvero lasciarci con la curiosità di sapere chi si salverà e chi morirà da “eroe”.