Dopo aver completato l’Eastrail 177 Trilogy – aperta nel 2000 con Unbreakable e recentemente conclusa con Split (2016) e Glass (2019) – M. Night Shyamalan torna sul grande schermo con Old, promettente thriller estivo dalle sfumature orrorifiche che, stando ai dati del box office e alla sala strapiena in cui per poco non riuscivo a entrare (cosa inedita nel periodo post-COVID), sembra aver suscitato enorme interesse nel pubblico, specie tra i più giovani. I motivi sono molteplici: la concorrenza è scarsa, il soggetto intriga, il trailer funziona, gli attori sono noti, il regista è sempre stato apprezzato per i suoi finali a effetto. Insomma, gli ingredienti sembrano quelli giusti. Eppure, dalla sala in molti sono usciti delusi. La trama del film è tanto semplice quanto efficace: alcune famiglie in vacanza, su consiglio del direttore del resort, decidono di trascorrere una giornata in una spiaggia isolata. Dopo quasi un’ora di indizi gravi, precisi e concordanti, i personaggi finalmente intuiscono che il tempo sta passando molto più velocemente del normale. Chi tenta di lasciare la spiaggia è colto da un malore. Riusciranno i poveri turisti a trovare il modo di fuggire prima di morire di vecchiaia? La risposta ovviamente la lascio scoprire a voi, ma vengo intanto al primo problema: ciò che ho descritto fin qui (vale a dire l’intreccio dell’intero film, meno il finale) è già contenuto nel trailer.
Lo spettatore è quindi costretto ad attendere quasi cento minuti al solo scopo di scoprire cosa accade negli otto rimanenti. Il twist finale c’è, per quanto debole e non all’altezza delle aspettative. Un twist comunque di particolare attualità, concepito nel corso del primo lockdown, che offre una riflessione sul prezzo che la scienza è disposta a pagare pur di accelerare i tempi della ricerca. Ma che prezzo sono disposti a pagare gli spettatori per godere esclusivamente di questo epidermico piacere? Al box office l’ardua sentenza. Come si è avuto modo di intuire, la sceneggiatura di Old (scritta dallo stesso Shyamalan) non brilla certo per originalità. La pellicola, oltre a presentare dialoghi per lo più banali e passaggi poco significativi, ricalca nel suo sviluppo narrativo diverse situazioni già viste e riviste in Lost: la spiaggia da cui non si riesce a fuggire, il dottore che diventa subito leader, gli “altri” che osservano dalla giungla, il magnetismo come possibile causa del fenomeno paranormale. Persino Ken Leung sembra essere stato scritturato in continuità rispetto alla celebre serie tv. Il cast è composto da volti noti del cinema come Gael García Bernal, Vicky Krieps, Rufus Sewell e gli emergenti Thomasin McKenzie e Alex Wolff, eppure nessuno di loro riesce ad offrire un’interpretazione particolarmente memorabile.
Sul piano strettamente visivo invece qualcosa sembra salvarsi. La regia regala intriganti inquadrature, che ricorrendo spesso a una messa a fuoco deformata infondono un senso di allucinato disorientamento. Il ricorso agli effetti speciali viene opportunamente ridotto al minimo indispensabile e il precoce invecchiamento dei personaggi è intelligentemente ottenuto per sottrazione, tramite espedienti efficaci. Accorgimenti tutti funzionali non solo a una riduzione dei costi di produzione, ma anche a una maggior credibilità estetica. Ad ogni modo, che Shyamalan sapesse girare lo sapevamo già. La speranza, purtroppo disattesa, era quella di vedere qualcosa che andasse oltre un semplice twist ending.