L’ultima volta che avevo sentito Alioscia Bisceglia era esattamente un anno fa in occasione dell’uscita di Quarantine scenario, una raccolta di istantanee sonore, nato dalla condivisione del brano Scenario che anticipava il nuovo album dei Casino Royale. Scenario, settima traccia dell’album, come nel lungometraggio rimane sempre un momento di sospensione molto confidenziale in cui Alioscia interpreta le parole di un messaggio ricevuto attraverso la connessione con uno spirito guida, Josh. I Casino Royale ritornano così sulle scene a distanza di dieci anni da Io e la mia ombra, celebrano il loro decimo lavoro discografico che ribattezzano come la loro ennesima reincarnazione e lo fanno con un sound e un approccio diverso rispetto alla produzione musicale contemporanea che, più che la musica, si pone come obiettivo una maggiore visibilità sui social. «Il motore che ci ha spinto a registrare è lo stesso delle altre volte: la voglia di fare di musica», mi spiega. Scritto e pronto già prima della pandemia, Polaris sembra quasi una premonizione, racconta lo smarrimento di ogni individuo che guidato dalla stella polare si ritrova – sia a livello personale che in una dimensione di condivisione di comunità. Un concept album di otto tracce in cui il gruppo milanese accompagna l’ascoltatore in un viaggio musicale, tra sonorità orchestrali, canzoni, elettronica di radice europea e groove di matrice black.
Polaris è come la stella polare, una luce nel caos, anche se già nella prima traccia, Tra noi, predomina una visione apocalittica.
L’idea e alcune sonorità nascono già nel 2017, quando nessuno di noi poteva immaginare cosa sarebbe accaduto in futuro. Ora, non è che ci abbiamo messo anni a scrivere questi otto brani, ma ci siamo approcciati alla produzione di quest’album in maniera più soft, più lenta, perché abbiamo voluto vivere le nostre vite, pensare a quello che avevamo vissuto e a come è cambiato il contesto. Però, era come se sentissi già aria di apocalisse, che poi un po’ è quello che è stato lo scorso anno, soprattutto per noi artisti. Ora vedo un Paese convalescente che ha come obiettivo la rinascita e quindi è alla ricerca di una linea guida così come può essere la stella polare, simbolo del punto di riferimento dei viaggiatori. Abbiamo pensato sin da subito che fosse il nome adatto, soprattutto per il momento storico che stiamo affrontando.
Quando parli di crisi e di orientamento intendi sia una crisi personale che poi si riflette in un contesto più generale e comunitario di problematiche.
La pandemia ci ha solo resi più vicini, sicuramente ha messo a dura prova molti, ma forse ci ha anche dato, nel panico, un po’ di lucidità; abbiamo visto che tutta la scenografia in cui eravamo immersi è crollata in un secondo. Milano, per esempio, era una città fortemente inebriata dal post Expo mentre altre città come Roma hanno iniziato a sentire clima di crisi già da tempo. E anche da un punto di vista personale ero giunto a un punto in cui, vivendo poi in un mondo di socialità, sentivo che c’era una forte esaltazione; tutti potevamo diventare famosi, ricchi, milionari, tutti quanti sono dei media e delle potenziali star, tutti quanti concentrati sui singoli; perché poi l’utilizzo dei social network porta all’individualismo, anche artisticamente.
A proposito di questo, dei social network e delle potenziali star, hai sempre sostenuto che un artista deve comunicare qualcosa, al contrario di quello che invece sta succedendo da un po’ di tempo a questa parte dove un artista è più frutto di una comunicazione di marketing.
Polaris sicuramente non è un disco che si presta alla programmazione radiofonica, lo vedo più come un progetto di comunicazione. Il nostro ultimo album risale a dieci anni fa e da allora l’industria musicale si è imbattuta in cambiamenti, se vogliamo necessari, per combattere la crisi che stava attraversando. Oggi gli ascoltatori che veramente possono definirsi tali sono una nicchia, il resto delle persone che “ascoltano” i nuovi brani sono più concentrati sull’immagine, sul numero di like che un artista ha sui social e, il concetto primordiale di un lavoro discografico tende a piegarsi alle logiche di marketing. In questi dieci anni abbiamo osservato tutti questi cambiamenti, per questo Polaris è un lavoro lento, ci siamo presi tutto il tempo per poterlo costruire e questo ha fatto si che nascessero nuove collaborazioni, a volte anche un po’ distanti da quello che erano i Casino Royale in passato; vedi tutto il lavoro orchestrale che è un aspetto determinante del disco. Siamo stati liberi, liberi di esprimere in musica ciò che volevamo raccontare, abbiamo messo su un lavoro completo senza la fretta di uscire, come spesso accade per esigenze discografiche. Questa volta siamo stati totalmente dipendenti, ci siamo presi il nostro tempo ed è venuto fuori ciò che volevamo; il nostro pubblico, quello fedele, ha apprezzato nonostante non sia un disco nostalgico per nostalgici.
Sicuramente la componente musicale che più caratterizza l’album è la presenza dell’orchestra con a capo Giorgio Mirto (direttore dell’Orchestra Alta Felicità ndr.) che ha composto e arrangiato alcuni brani. Ma anche la presenza del giovane produttore Francesco Leali (figlio di Fausto ndr.). Nonostante ci siano solo otto brani, di cui quattro strumentali, è un lavoro denso con beat asfissianti, pianoforti, archi, cassa dritta, suoni scuri e notturni.
Abbiamo lavorato davvero in maniera collettiva; spesso quando si lavora in studio con il produttore è facilissimo che si creino dei contrasti. Invece con Francesco, nonostante la sua giovane età – quando abbiamo iniziato a collaborare non aveva ancora trent’anni – e l’essere di un’altra generazione quindi non un nostro fan, non ci sono stati problemi, anzi è stata una condivisione di intuizioni che ha fatto nascere Polaris. All’inizio eravamo certi di una cosa: volevamo l’orchestra, con pianoforti e archi e mixare il tutto con dei beat che dessero un ritmo forte e movimentato. Le parti orchestrali (Contro me stesso e al mio fianco e FVDL Interlude) sono nate quando Giorgio Mirto ci ha invitati a un festival no tav in cui la sua orchestra suonava pezzi di altri. Secondo me Polaris è un disco molto europeo, se ti aspetti il funk dei Casino Royale rimani deluso perché è assente. Ti dirò di più, credo che sia un disco per molti aspetti new wave, ed essendo cresciuto immerso di new wave, so di cosa parlo e credo che non ci sia nulla di male se lo definisco tale.
E i live, come si struttureranno con la componente orchestrale e con l’idea anche di voler produrre un cortometraggio su Polaris?
Non vediamo l’ora di tornare sul palco, ma anche qui stiamo proseguendo con calma per fare le cose per bene. Sicuramente a febbraio ritorniamo a suonare dal vivo e per l’idea di come strutturare il nostro spettacolo ci stiamo pensando su; ci piacerebbe riproporre alcuni brani dei Casino Royale in maniera più intima, magari in teatro, e avere anche alcuni componenti dell’orchestra potrebbe essere la soluzione ideale per condividere tra passato e futuro il ritorno sulle scene del gruppo.