Quando lo chiamo, Federico (da qui in avanti Franco, per sua stessa richiesta) risponde al primo squillo. Questa cosa non mi era mai capitata prima. Sono in ritardo? Penso. O magari è un po’ sotto torchio per il momento di promo massiva che lo ha investito in questi giorni. Gli chiedo subito come va. Si schiarisce la voce. «Tutto bene, grazie». Immagino siano giornate un po’ caotiche per lui. «Quando esce un disco come questo, che non è esattamente un ascolto semplice, c’è un po’ di sana ansia, ma onestamente non ci penso», mi dice. Siamo al telefono da meno di un minuto e mi ha già sorpreso due volte. Anch’io quando Bomba Dischi mi ha inviato l’ascolto di Multisala ho pensato lo stesso: ossia che si trattasse di un album di grande livello e che dunque, come quasi sempre accade, uno di quelli che per coglierli a pieno ci vogliono almeno un paio di settimane. Di solito però gli artisti vivono su un pianeta tutto loro nei giorni dell’uscita; credono che il loro sia il disco definitivo, perfetto, senza macchia. Franco invece ha messo a fuoco le caratteristiche del suo lavoro in modo distaccato. Questo basterebbe già per metterlo nella mia personalissima top three degli autori italiani della sua generazione, ma visto che già ricopre quel posto da Stanza singola, ha poco senso. La verità è che il vero merito consiste nell’aver scelto di fare un disco “difficile”, perché la sua idea è quella di restare. Perché ok che è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente, ma è ancor meglio bruciare più a lungo possibile a fiamma media. «È un disco di scrittura. In certe cose devi entrarci, no? Ci sono pezzi più immediati, ma in generale devi vivere anche un certo mood per coglierli a pieno. Anche Stanza singola è un viaggio, ma sicuramente diverso. Il Covid ha permesso a certe cose che avevo dentro di farsi largo, per certi aspetti invece ha castrato certe situazioni di vita vissuta che poi finiscono inevitabilmente nelle mie canzoni».
I tuoi racconti sono spesso urbani, infatti. Uno si aspetterebbe che tu li scrivessi in modo istintivo. La verità invece, lo hai detto più volte in questi anni, è che la tua poetica è frutto di un lavoro molto lungo. Da cosa nasce un tuo brano?
Mille input mi toccano. Ci sono dei concetti che mi colpiscono più di altri, ma il lavoro più imponente è la ricerca delle parole. Ci sono giorni in cui scrivi ma le storie non prendono forma nel modo in cui vorresti. Poi ovviamente ci sono volte in cui invece riesci più velocemente ad arrivare a destinazione. Però ecco: c’è da parte mia una grande cura verso le parole e il vocabolario, inteso come registro linguistico.
Che poi tu vieni dal rap e dal cantautorato, due generi in cui la parola ha un valore enorme.
Il rap nello specifico è fatto per essere letto oltre che cantato mentre il cantautore fa molto leva anche sulla melodia. Il gusto della parola è per me centrale. Di certo questi generi mi hanno molto segnato.
Quindi sei d’accordo con la definizione che ti viene attribuita da Wikipedia, “artista pop rap”?
(Ci pensa per almeno cinque secondi ndr.). No, perché faccio anche tanto altro. Non sono uno di quelli però che crede sia sbagliato categorizzare. Si sente spesso dire che i generi musicali non esistono più. Forse è vero che viviamo nell’epoca del crossover, ma non mi sento di criticare chi prova a mettere la musica dentro delle scatole. Mi cimento in molte cose, ma c’è un fatto che dico spesso anche con le persone con cui parlo di musica, ovvero che se una volta ciò che ascoltavi doveva trasparire nella tua estetica, ma anche in tutto il resto, e dunque un metallaro non poteva ascoltare altro o piuttosto un ascoltatore di rap doveva frequentare certe cerchie e vestirsi in un certo modo, oggi un ragazzo non ha una cresta rosa o il chiodo per forza, perché di base chi ascolta rap probabilmente ascolta anche tanto pop e tanta trap.
In effetti ciò ti caratterizza è la penna, non tanto lo stile musicale. Sul vecchio lavoro all’interno di Nuvole di drago citavi la scena finale di Fight Club mentre in questo disco tutto fa riferimento al concept della sala cinematografica. Ti piacerebbe scrivere una colonna sonora?
Per scrivere una colonna sonora serve essere dei compositori, o comunque dei producer. Io non conosco la musica, ma se invece intendi dire se mi piacerebbe scrivere un pezzo che poi possa finire in un film, allora sì. Per esempio Maledetto tempo sarebbe dovuto finire nel film su Francesco Totti, ma poi l’operazione non è andata a buon fine. Ho cambiato alcuni passaggi; per esempio il testo aveva dei riferimenti all’erba del campo di gioco o cose simili. Ho pensato fossero troppo specifici per il disco, così ho rimodellato il testo e ora sono felicissimo di come è uscito fuori.
Che poi Maledetto tempo è il mio brano preferito del disco, forse meglio come è andata.
Infascelli (il regista di Mi chiamo Francesco Totti ndr.) voleva un sound di un certo tipo: retrò ma tendente alla synth wave, sulla falsa riga di Fuoricampo dei Thegiornalisti e poi voleva questa salita melodica. Sono proprio contento che mi abbia dato il là per fare questa cosa. Anche se non è finita nel film mi è servito molto approcciarmi in modo nuovo alla scrittura di un brano.
In che senso “nuovo”?
In pratica io scrivo sempre su un beat o su un giro di chitarra che mi piace, poi il producer costruisce l’arrangiamento e produce il brano in tutte le sue sfaccettature. Qui invece abbiamo edificato tutto dal niente. Accordi e melodia sono nati insieme, di pari passo insomma. Pietro di Dioniso sosteneva le melodie che mi balenavano in testa e andavamo avanti.
A proposito di tempo, quando ci siamo sentiti l’ultima volta io ero da poco entrato nei venti, oggi entrambi ci muoviamo verso la cosiddetta fine dei vent’anni. Vivi con consapevolezza la tua maturità o sei lo stesso ragazzo di allora?
Questo mestiere ti mette nelle condizioni di crescere in modo strano. Il mondo della musica è fatto di giovani; noi artisti ci approcciamo alla musica da ragazzi e per dire il pubblico dei concerti è un pubblico giovanile a prescindere dall’età anagrafica. Questo ti porta a crescere molto nei primi anni di carriera e poi, col passare degli anni, è una lotta a non invecchiare troppo. Per certi versi sono molto maturato, sotto altri punti di vista sono lo stesso di prima.
Che poi sia Alessandro (cofondatore di Bomba Dischi ndr.) che alcuni nostri amici in comune mi hanno detto che prediligi la parte artistica del tuo mestiere a quella professionale, passami il termine.
Sono per certi versi un po’ vecchio stampo, un po’ vintage (ride, ma non troppo ndr.).
In questi giorni, anche se so che non sei un tifoso accanito di calcio, ti sarà capitato di sentir parlare della Super Lega. Progetto nato e dirottato nello spazio di poche ore. Il calcio, che è nato come lo sport di tutti. Stava diventando un business per pochi. Alla fine le persone comuni lo hanno salvato. Forse anche il settore discografico per molti è diventato un circolo di investitori, una roba per gente in giacca e cravatta. Credi sia nocivo per la musica avere degli autori/influencer?
Sapersi vendere è fondamentale. La promo è una parte essenziale, anche se credo che poi i nodi vengano al pettine: se un disco è brutto ma ben promosso avrà comunque vita breve, non credi? Ad ogni modo io preferisco la musica. Non che una cosa escluda l’altra, ma io vivo sognando di fare musica. Per dirti ora appena ci salutiamo vado in studio. Tu dirai: ma è uscito ora il disco, torni già in studio? Io sono fatto così e non penso ad altro perché mi fa stare bene. Ho proprio bisogno di scrivere, per me è una necessità. Comunque ho cercato di promuovere il disco al meglio, grazie ai miei collaboratori, attraverso un concept grafico e delle attività promo. Se non altro perché un disco mal promosso non fa il percorso che dovrebbe, ed è un gran peccato, capisci? (A questo punto mi chiede chi siano i nostri amici in comune e iniziamo a parlare. Ho la sensazione netta che per lui l’amicizia sia qualcosa di veramente importante ndr.).
Chiamandomi Simone non ho potuto fare a meno di ascoltare più attentamente il brano che porta il mio nome. Simone è una persona reale oppure no?
Simone ha tante caratteristiche sia mie che dei miei amici. Lui è un tipo umano molto comune: sono sicuro che Simone rispecchi un po’ di tutti noi o al massimo un amico. Poi se come nel nostro caso sei ventenne o trentenne, è molto probabile avere dei Simoni dentro o intorno. Lì mi interessava raccontare l’amicizia in tutte le sue contraddizioni e nei suoi alti e bassi. Le luci e ombre di questo personaggio sono la parte essenziale su cui volevo indagare. Simone è a tratti molto luminoso, anche un po’ spaccone, carismatico. Se c’è lo senti, se manca lascia un vuoto, non so se mi spiego. D’altra parte Simone è fragilissimo e sensibile. Ha dei momenti molto scuri e non riesce a tirare fuori alcune robe sue, per cui preferisce nascondersi dietro una maschera.
C’è una canzone uscita qualche anno fa, CXXVI, in cui canti: “Ho più di sette dischi d’oro e non ci faccio niente/Mi trovi ancora in piazza a beve come un deficiente”. Hai mai avuto paura di imborghesirti col successo?
Il successo ti cambia solo se gli dai modo ti cambiarti. Per me è difficile percepirlo questo presunto successo, visto che sto sempre con le stesse persone, negli stessi posti di sempre. Il peso, ma anche il fascino, del successo lo senti se cambi spesso aria. Per me fare musica è quasi un regalo e farlo per mestiere è addirittura una benedizione, buttarsi via montandosi la testa è un peccato madornale. Poi che c’entra? Un po’ sicuramente essere riconosciuto ti aiuta a prendere consapevolezza delle tue capacità, ma questo è solo un bene. La riprova sociale è importante, ma solo nell’ottica di darti quella leggerezza e, se vogliamo, quel coraggio di fare certe scelte. L’autostima serve a fare le cose meglio, se i risultati peggiorano è vanità.
Spero di non averti distolto dalla tua musica per troppo tempo. Se questo ritardo sulla tua tabella di marcia avesse tolto al mondo la prossima Stairway to Heaven, sappi che ne sono desolato.
No, non c’è nessuna Stairway to Heaven, e se anche ci fosse, di certo nascerebbe dopo una lunga gestazione. (Ride ndr.).
Foto di Beatrice Chima
Digital Cover di Jadeite Studio
Ufficio stampa Bomba Dischi/Franco126: Alessandro Ricci