Vecchie cariatidi in preda ad isterismi di vario tipo direbbero che non c’è storia o paragone a riguardo. La musica in passato era musica vera, oggi soltanto canzonette. I numeri, le views, gli stream, i tabloid, i Grammy, Sanremo, il giovane pubblico, nessuno ha capito assolutamente nulla, direbbero. Se fate parte di quella fetta di popolazione smettete subito di leggere questo articolo, potrebbe urtare la vostra sensibilità. Eppure credo fermamente che la storia, compresa la storia musicale italiana e internazionale, abbia vissuto da sempre e vivrà per sempre in parte all’ombra del passato proprio a causa di una delle sensazioni più frequenti dell’essere umano, ovvero la nostalgia; e per nostalgia intendo persino la nostalgia di qualcosa mai vissuta. Snoderei la questione in due fazioni opposte: c’è chi rivive il passato attraverso la musica nuova, c’è chi disprezza fortemente la musica nuova perché vive letteralmente nel passato.
Non prenderò in esame i tanto bistrattati numeri, nonostante siano uno specchio chiaro e che incide prepotentemente sul discorso affrontato, ma prenderò in esame i Grammy e Sanremo 2021. I brani e gli artisti protagonisti di entrambi gli eventi mediatici mostrano la realtà dei fatti nuda e cruda: le tendenze non possono e non si devono ignorare perché divengono inevitabilmente lo specchio della realtà e del periodo storico vissuto. Chi rimpiange Guccini sta decontestualizzando lo stesso, chi rimpiange i Queen è lo stesso che, vedendo una giovane rockband qualsiasi imitare i Queen, ne resta disgustato e amareggiato. Le chitarre torneranno, tranquilli amici, torneranno, come sono tornati i synth, com’è tornato l’auto-tune, il vocoder, come sono tornati gli anni Ottanta, come torna sempre tutto, proprio perché la musica non funziona tramite compartimenti stagni, piuttosto ricerca in sé una consistenza fluida: la musica è acqua. Si mescola, si contamina, cita silenziosamente gli antenati imponenti senza necessariamente doversene servire in toto, senza necessariamente doverli imitare spudoratamente.
E per coloro i quali pensano che la musica sia finita negli anni Settanta? Solitamente lascio loro una risposta, seppur lapidaria, totalmente sincera: non riuscire ad aprire le orecchie e ad ascoltare quanto del passato rinasca continuamente all’interno dei brani delle nuove leve e quanto di buono si può apprendere all’interno di nuove forme di scrittura e sound è da ottusi. Il pop odierno, tanto osannato dal pubblico medio e tanto spesso massacrato dai nostalgici, diviene forse davvero il centro focale del nostro discorso. Perché distruggere a priori o richiedere sui grandi palchi le vecchie glorie del passato e i facsimile di esse? E perché quando poi a Sanremo vincono i Måneskin si grida al plagio e alla mancata innovazione? È un controsenso forse. Bisognerebbe imparare dal passato e bisognerebbe contestualizzare e soprattutto non distruggere a priori il presente, perché questo presente diventerà per qualcuno un passato da rimpiangere: ecco, lo dico sempre, la storia è ciclica e il bisogno generazionale di farsi ascoltare con i propri mezzi resta uno dei diritti più belli esistenti, un diritto che traghetta la musica sempre in proiezioni future, mai fuori moda, sempre al centro.