Che l’uso e l’abuso di sostanze abbiano influito – talvolta – nella produzione artistica del Novecento non è più un segreto, né un tabù. Secondo la maggior parte dei critici, la prima esplorazione del processo creativo delle droghe risale al 1821, anno in cui sono state pubblicate le Confessioni di un mangiatore di oppio inglese di Thomas De Quincey. Da allora e in particolar modo durante l’ultimo secolo, tantissimi sono gli esempi di questo tipo e non riguardano soltanto la letteratura. Anche molti film o canzoni si sono concentrati sulle sostanze e sul rapporto che l’artista ha con queste. Restringendo il campo, la cultura hip hop e – di conseguenza – la musica che rappresenta, hanno sempre avuto un legame diretto con la droga. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di una cultura che ha origine in strada, nelle periferie, in contesti di disagio sociale ed economico che spesso portano a situazioni di degrado e di spaccio. La musica rap non è mai stata del tutto innocente rispetto all’uso di droghe o all’abuso di alcol: ad esempio l’erba (la famosa weed) è sempre stata un riferimento in molte canzoni, oltre che una scelta di consumo personale per molti degli artisti.
Eppure, negli anni non è cambiato solo il modo, ma anche quanto le canzoni rap raccontano e contengono storie di droga: uno studio condotto nel 2008 dall’Università di Berkley in California, ha scoperto che i riferimenti alle droghe nella musica rap sono aumentati radicalmente tra il 1979 e il 1997. I ricercatori hanno analizzato ben 341 testi delle canzoni rap più popolari durante quegli anni, notando un incremento di sei volte dei riferimenti alle sostanze. Tra il 1979 e il 1984, circa l’11% delle canzoni conteneva accenni alla droga. Alla fine degli anni Ottanta, la percentuale saliva al 19%, per poi balzare al 69% appena pochi anni dopo, nel 1993. Lo studio ha mostrato anche un aumento – all’interno dei brani – di termini positivi riferiti alle sostanze, ascrivibili alla sfera del glamour, della ricchezza e della socialità, oltre che un cambiamento significativo nei tipi di droghe citate all’interno delle canzoni. Lo studio di Berkley – ad ogni modo – si ferma ad analizzare la vecchia scena rap, ma ne esiste un altro condotto dall’Università di Pittsburgh nel 2008 che è decisamente più aggiornato.
Quest’ultima analisi ha infatti preso in considerazione la classifica hip-hop Billboard delle 279 canzoni più popolari nel 2005. I risultati hanno mostrato come l’uso di sostanze viene accennato nel 77% delle canzoni, la più alta percentuale di sempre. Questo dato evidenzia che la nuova scena trap ha reso quello delle sostanze uno dei suoi argomenti prediletti, oltre che una fonte d’ispirazione. Non dimentichiamoci che la cultura trap prende forma nei sobborghi di Atlanta fra le mura delle trap house, le case in cui veniva preparata, venduta e consumata droga, in particolare il crack. Il fatto che la musica trap nasca con un DNA tossico è dovuto ad una serie di fattori, alcuni anche casuali. In primis, la passione e – di conseguenza – gli investimenti economici delle organizzazioni criminali che si occupavano del traffico di droga (tra tutte, la Black Mafia Family) verso la musica hip hop. Senza questi fattori, probabilmente non avremmo alcuno degli artisti trap che oggi dominano le classifiche italiane e internazionali.
Un altro dei fattori che hanno contribuito allo scenario attuale è stato la riconoscibilità delle storie di droga che venivano descritte e di conseguenza la sua riproducibilità. Il traffico di droga ha sicuramente avuto ad Atlanta dei numeri da record, dovuti alla sua conformazione territoriale e al fatto che qui si fossero concentrate le principali organizzazioni. Eppure, tutti i sobborghi delle principali metropoli americane avevano sviluppato – nel loro piccolo – un sistema di traffico di sostanze e edificato le loro trap house. È come se ogni città contenesse già la sua scena trap – pronta ad emergere e a raccontare le situazioni vissute quotidianamente nel blocco – che aspettava solo una legittimazione e la constatazione di non essere sola. Per quanto possa sembrare aberrante e scorretto, questa legittimazione arriva all’inizio proprio con il traffico delle sostanze stupefacenti.
«In passato – nel rap – si è sempre parlato di droga, ma ovviamente ci sono differenze profonde tra come lo faceva Notorious B.I.G. che nel 1997 scriveva i Ten Crack Commandments, un suo famosissimo brano, e come lo fa nel 2005 Gucci Mane. La differenza sta innanzi tutto nel contesto: artisti come Notorious B.I.G. venivano da grandi metropoli come New York, invece la trap si è sviluppata in contesti più provinciali, meno street e più casalinghi. E lo ha fatto in modo molto graduale, parallelamente a ciò che succedeva nella società: con la diffusione maggiore di determinate sostanze, anche nell’hip hop – di conseguenza – sono diventate sempre più presenti. Un’altra differenza è che l’hip hop classico ha affrontato tante tematiche diverse: in un disco di Notorius B.I.G. c’è una traccia che parla di droga, un’altra che parla d’amore, un’altra ancora motivazionale e così via. In un album uscito dieci anni dopo sarebbero invece tutte molto più simili a Ten Crack Commandments».
A parlare è Ketama126, l’artista che ci aiuterà a comprendere a fondo il legame che la cultura trap ha con le sostanze. Capelli lunghi da metallaro (da ragazzino suonava il basso in una cover band dei Metallica e dei Black Sabbath) Ketama126 – ad appena 28 anni – ha già pubblicato quattro album, con all’interno una quantità sbalorditiva di singoli di successo, e raggiunto molti dei suoi obiettivi: tra questi, trovare il proprio posto nel mondo ed essere ancora vivo. Piero infatti non ha mai nascosto il suo rapporto con le sostanze e lo ha sempre descritto in maniera realistica e disincantata, senza ricondurre la narrazione ad un’occasione per esibirsi e ostentare, come spesso fa la scena anche in tema di droghe. Eppure, per quanto possa essere l’influenza dei giganti della trap sugli adolescenti, l’uso e l’abuso di sostanze sono fenomeni che piantano le loro radici molto più a fondo, fisicamente ed emotivamente, rispetto alla musica stessa. Ecco perché Ketama126 è senza dubbio la figura giusta per aiutarci ad esplorare questo territorio così complesso e controverso, di cui la cultura trap si ispira e per cui viene spesso accusata di essere diseducativa.
«Io non penso proprio di dover essere un esempio, né buono, né cattivo. Se poi vogliamo a tutti i costi prendermi da esempio, ci sono sicuramente degli aspetti da considerare pessimi, così come altri da considerare ottimi. Se un ragazzino mi dovesse prendere da esempio per quanto riguarda le esperienze che ho fatto con la droga, farebbe senza dubbio la cosa sbagliata. Se mi dovesse invece seguire per iniziare a coltivare una passione, come la musica, oppure impegnarsi in un lavoro che ama, ottenendo un risultato concreto nella vita, allora – in quel caso – sarei un ottimo esempio. Non è una novità che riguarda la trap, di droga si è sempre parlato, nel rap e in molti altri generi musicali. Il problema è che – in particolare in Italia – vi è una discrepanza tra quelli che sono gli argomenti trattati dalla trap e quello che è il suo pubblico. Si parla di argomenti abbastanza delicati e impegnativi, però chi ne fruisce sono poco più che bambini e difficilmente possono comprenderli appieno. In America il pubblico è invece più maturo, perché non c’è stata una vera e propria esplosione della trap. Esiste il rap – dagli anni Ottanta – che si è poi evoluto fino a quel genere che oggi chiamano trap. L’errore qua in Italia è stato di pensare che fino al 2016 non ci fosse niente, poi è arrivato Sfera Ebbasta ed ecco la trap».
La scena precedente ha avuto in tutto il mondo una forte valenza politica, per questo si poneva – anche rispetto al tema della droga – con un atteggiamento marcatamente antiproibizionista, vocazione che si è un po’ persa con l’avvento della trap. Alcuni ritengono vi sia stata perfino una correlazione diretta tra la legalizzazione dell’uso di cannabis in alcuni degli Stati americani e la diffusione dell’hip hop e dei suoi messaggi antiproibizionisti, confermando il profondo legame tra la cultura rap e la società. Anche senza essere la sostanza più rappresentativa, l’erba rimane diffusissima anche sulla scena attuale, sia nel consumo da parte degli artisti che nei riferimenti presenti all’interno dei testi. Quella che oggi è venuta meno è proprio la valenza politica e sociale legata al consumo delle sostanze, rendendo anche questo un atto egoriferito, che l’artista ama fare da solo o tutt’al più con la sua crew, ma di cui ama parlare. Questo è in parte legato allo stile di vita che il trapper conduce e che lo accomuna alle grandi rockstar. Ketama126 rappresenta in questo senso al meglio la scena: parla spesso apertamente del suo rapporto con le sostanze e della sua “vita spericolata”.
«Penso sia per lo stesso motivo per cui ne parlavano tanto anche le rockstar ai tempi. Nella musica trap il fatto di raccontare cose personali senza peli sulla lingua è sempre stata una peculiarità del genere, per lo meno di quello fatto bene. Sfogare un istinto personale che hai dentro e che altrimenti non tireresti fuori, per me rappare vuol dire quello. Ed è qualcosa che mi viene assolutamente naturale. Ormai ho 27 anni e conosco ciò di cui parlo, c’è molta più consapevolezza nei miei testi. Anche nel mio primo disco – Benvenuti a Ketam City – parlavo già di sostanze, ma lo facevo in maniera totalmente diversa da come lo faccio oggi. Dal 2015 ad oggi ho registrato quattro album in studio ed è via via cambiato il modo in cui parla della droga. In realtà, è cambiato un po’ il modo in cui parlo di tutto: ho revisionato e perfezionato col tempo il mio modo di descrivere le cose, finché sono arrivato ad un modo personale di parlarne. Anche nel mio caso, l’uso e abuso di sostanze si è diviso in fasi: la prima in cui – entusiasta – ne ho visto solo gli aspetti positivi, seguita da un’altra in cui ho iniziato a rendermi conto di quello che la droga porta via, che è davvero molto. Per questo, soprattutto negli ultimi lavori, non tendo più ad osannare l’aspetto ricreativo delle sostanze e anzi, cerco di metterne più in evidenza l’aspetto drammatico e distruttivo».
Estratto da TRAP GAME. I sei comandamenti del nuovo hip hop, il libro di Andrea Bertolucci edito da Hoepli, racconta gli argomenti prediletti (i soldi, il “blocco”, le sostanze, lo stile, le donne e il linguaggio) sui quali questa cultura ha edificato il proprio successo. Dalle anguste case diroccate nei sobborghi di Atlanta, la musica trap ha conquistato in meno di vent’anni tutto il mondo, influenzando molti aspetti della cultura giovanile quali il linguaggio, l’abbigliamento e i consumi. Con il contributo esclusivo di alcuni fra i maggiori artisti sulla scena italiana: Lazza, Vegas Jones, Ketama126, Ernia, Beba e Maruego.