Nel 1971 Paulina Kael pubblica un saggio intitolato Raisin Kane con l’ambizione di scoperchiare il vaso di Pandora del cinema moderno. Accusa niente di meno che Orson Welles di essersi appropriato delle idee rivoluzionarie di altri, le stesse idee che crearono di fatto il mito di Quarto potere, ovvero il film più importante della storia del cinema che ha presentato al mondo il mistero della vita di Charles Foster Kane. Magnate dell’editoria, aspirante Presidente degli Stati Uniti, ricchissimo in grado di tessere la tela della Storia dal suo castello reale di Candalù, che muore però solo nel suo letto, bisbigliando la misteriosa parola “Rosabella”.
Orson Welles dunque, un illusionista più che un attore, un saltimbanco più che un regista, sbarca ad Hollywood a soli 24 anni dopo aver fatto credere all’America intera di essere sotto attacco alieno. Vince il biglietto d’oro: carta bianca e via libera dalla RKO per girare il suo primo film. Un ragazzo prodigio, una personalità eccentrica e dall’ombra già immensa, da riuscire a prendersi tutti i meriti per Citizen Kane, questo il titolo originale. Paulina Kael venne smentita a più riprese durante gli anni da esponenti più autorevoli e da documentazioni inattaccabili, e la sua tesi venne totalmente abbandonata.
Eppure Mank di David Fincher si basa proprio su questo assunto. Un film che sarebbe già dovuto essere girato negli anni Novanta e che solo oggi trova la luce, e che porta il nome di uno dei discussi autori di Quarto potere. Herman J. Mankiewicz, per tutti Mank, interpretato da un Gary Oldman in stato di grazia, si riprende qui il ruolo di protagonista scansando la figura ingombrante e quasi intoccabile di Orson Welles. Mank è un “vecchio di quarant’anni”, uno sceneggiatore della Hollywood degli anni Trenta, contesa tra diverse case di produzione con le proprie dive ancora alle prese con la nascita del cinema sonoro.
Dopo un incidente stradale che lo costringerà a mesi in un letto viene avvicinato dal ventiquattrenne Orson Welles che gli commissiona una sceneggiatura per un film che porterà la sua firma. Carta bianca per tutti, ma è il termine è di novanta giorni, che diventeranno ben presto sessanta. Mank inizia la stesura aiutato da una dattilografa (Lily Collins, graziosa tanto quanto già dimenticata) e da una serie di sonore sbronze in grado di accelerare il suo genio. Ne nasce il ritratto poco velato del magnate della stampa William Randolph Hearst di cui Mank era una vecchia conoscenza e che una serie di flashback ci porteranno a conoscere da vicino.
David Fincher decide di raccontare la genesi di un capolavoro ricalcando la vita di Mankiewicz, facendoci credere di aver girato un biopic, nonostante non ci siano per lui fonti ufficiali a disposizione. Si tratta semmai di un ritratto fortemente romanzato di Mank, ma le intenzioni restano forti. Decidendo cioè di raccontare la storia americana di quegli anni, gli esponenti politici e di rilevanza sociale attraverso gli occhi e l’esperienza dello sceneggiatore Mank, ed è chiaro quanto si voglia sottolineare che solo la sua personale esperienza biografica sia stata la base della sceneggiatura di Quarto potere. Orson Welles resta in un angolo, con la voce possente ma le bizze di un ragazzino. Un ritratto indegno di un esponente del cinema tout court che ha dato tanto nonostante la vita dopo Citizen Kane sia stata costellata di alcune delusioni professionali e private.
Mank è un film che rappresenta le contraddizioni del regista David Fincher. In bilico tra il condannare Orson Welles e utilizzarne tutti i tratti stilistici che lo hanno fatto conoscere al mondo. La regia infatti è totalmente ricalcata su quella di Quarto potere, arrivando anche all’adozione del bianco e nero, reso bellissimo dalla fotografia di Erik Messerschmidt che taglia la luce di netto rendendo i contrasti dei personaggi tangibili. Ma se il linguaggio è lo stesso del film del 1941, la portata è decisamente più modesta. Quarto potere vide la luce in un periodo in cui il cinema americano andava distinguendosi per generi e in cui la sceneggiatura doveva necessariamente procedere in maniera lineare.
Orson Welles – certamente accostato a grandi collaboratori tra cui il direttore della fotografia Gregg Toland e il montatore Robert Wise – scardina tutti questi paradigmi, inventando di fatto il cinema moderno. L’utilizzo della profondità di campo, delle lenti grandangolari, del piano sequenza e soprattutto del flashback a livello narrativo, furono inoltre adottate con intenti strettamente legati alla diegesi, facendo dell’ambiguità e dell’inafferabilità il vero tema di Quarto potere. E questi sono solo piccoli esempi della rivoluzione nata dal primo lavoro di Orson Welles. Quello che manca alla regia e alla sceneggiatura di Mank non è davvero la tecnica, ma è appunto un’intenzione forte che vada oltre al semplice omaggio e gusto cinefilo.
Viene il dubbio che Fincher sia consapevole di questo omaggio al lavoro di Orson Welles, se la diegesi non fa altro che cercare di distruggerne il mito e la persona. Una sceneggiatura che Fincher voleva mettere su schermo già diciassette anni fa, ma che ha avuto modo di venire al mondo solo dopo un forte lavoro di revisione e il via libera della produzione Netflix che, proprio come fece la RKO con Orson Welles, diede al regista carta bianca. Le pagine dello script originali portano nientemeno che la firma di Jack Fincher, padre del regista David, scomparso nel 2003 che è voluto tornare con insensata caparbietà alle tesi di Paulina Kael.
David Fincher ha omaggiato molto più il padre che una certa storia del cinema americano, mostrandosi più come figlio che come regista. Ma il lavoro di revisione sulla sceneggiatura ha sicuramente ingentilito il soggetto di Jack Fincher, facendo in modo di portare a casa comunque un film incentrato su un personaggio complesso invece che su un vezzo. Mank è soprattutto il volto di Gary Oldman che dà vita a un uomo diviso, unica vera anima di questo film. Un personaggio ambiguo che Orson Welles, la cui coscienza artistica era strettamente shakespeariana, avrebbe ironicamente apprezzato.
Il Mank di Oldman – più che di Fincher – è un uomo acuto ma vittima dell’alcol, cui cui magari cerca anche di affogare la colpa di aver vissuto in mondo falso come quello di Hollywood. Un uomo divertente e brillante ma che spesso è visto come un giullare di corte dai grandi produttori e dall’alta società americana. Uno sceneggiatore che non vuole rinunciare né a porre la propria firma sulla migliore opera abbia mai scritto né al proprio ruolo di coautore accanto a un regista. Il merito di Mank è infatti anche quello di aver posto l’attenzione su una figura che nel cinema di tutto il mondo è inspiegabilmente considerata con qualche riserva. La parabola di Herman J. Mankiewicz, a cui inizialmente venne negata la citazione sulla locandina del film per mere questioni pubblicitarie, servirà a rivendicare una categoria che viene messa in ombra, ma alla quale spetta la stessa importanza di tutte le altre che, insieme, all’unisono, creano il Cinema.
Anche qui Fincher, magari per amor paterno, pecca di leggerezza. Quella di Orson Welles è da subito una posizione antirealista che aspira a una nuova scrittura teatrale e quindi cinematografica, in cui vengono coinvolti tutti gli strati della messa in scena allo stesso livello: il regista, la scenografia, la sceneggiatura, la colonna sonora, il tutto sorretto da una forte simbologia in grado di rendere attivo il coinvolgimento dello spettatore. Un superamento della realtà e quindi un’illusione tipica del cinema di Welles che Fincher ha attuato lungo tutto Mank come se una certa subcoscienza cinefila volesse sempre riaffiorare: un biopic che non è un biopic, una storia vera che ne ha toccate altre ma legate dal filo della finzione. Un attacco a un uomo il cui genio però corre lungo tutto il film. Mank è un one man show in grado comunque di stuzzicare l’attenzione del cinefilo, nonostante l’intreccio complesso. Un film che forse arriverà agli Oscar per i tecnicismi, ma anche per la carenza di film arrivati in sala a causa del Covid 19.