Prima di iniziare a parlare di Tiziano Ferro, mi piacerebbe aprire una piccola parentesi su Ballando con le stelle, che puntuale come l’influenza a gennaio, entra nelle case degli italiani il sabato sera. La settimana scorsa ho avuto il piacere di sentire un concorrente, Costantino della Gherardesca, parlare così in prima serata su Rai Uno: «Ho tanti difetti, mi trovo brutto, mi vedo grasso, però l’unica cosa per cui mi posso dare una piccola pacca sulla spalla è che non faccio televisione del dolore e non mi lamento. Bisognerebbe cambiare canale appena qualcuno piange». Una cosa del genere, detta sul primo canale della televisione di stato, è anarchia pura. Aver visto il documentario di Tiziano Ferro poco dopo la faccia rassicurante di Milly Carlucci è stato un vero dramma. Mi ha invitato a pormi questa domanda: l’esperienza del dolore come va raccontata? E qual è il sottile confine che divide condivisione e spettacolarizzazione?
Ma procediamo con ordine. Per quanti fossero rimasti chiusi in una caverna negli ultimi 20 anni, Tiziano Ferro è uno dei cantanti più conosciuti e apprezzati non solo in Italia, ma anche nel mondo. La sua carriera inizia con il singolo Xdono da Rosso relativo del 2001, e da quel momento il suo successo è stato inarrestabile. Album in classifica per mesi, tour negli stadi e tante altre soddisfazioni. Nel 2010, in occasione del suo trentesimo compleanno, pubblica il libro Trent’anni e una chiacchierata con papà, in cui dichiara pubblicamente la propria omosessualità e parla dei disordini alimentari di cui ha sofferto in passato. Un momento decisivo nella storia di Tiziano, ma anche nella storia dello spettacolo italiano. Non è stato di certo il primo cantante italiano ad aver fatto coming out, ma la sua rilevanza ha creato di certo uno spartiacque fra il prima e il dopo.
Passati altri 10 anni, il super Tiziano di Latina ha deciso di festeggiare in grande i suoi 40 anni, girando il docufilm Ferro. Il documentario è lontano mille miglia da quello proposto da Sfera Ebbasta sulla stessa piattaforma. Innanzitutto, perché la musica fa solo da eco nella narrazione, e poi perché quello di Tiziano non è un racconto delle origini come cantante. Il documentario si concentra quasi esclusivamente sui suoi drammi e le sue difficoltà, superate grazie alla musica e all’amore. Qui iniziano le mie perplessità: perché raccontare la storia umana di Tiziano solo alla tetra luce di ciò che non ha funzionato? Oltre ai problemi legati al peso e al suo coming out, Tiziano racconta (fin dai primi minuti del documentario) il baratro dell’alcolismo nel quale era caduto. La dipendenza è una costante, in realtà. Un dramma totalizzante. L’occhio del regista cerca di indagare sui motivi che lo hanno portato alla dipendenza, provando a fare un percorso introspettivo dell’artista. Il documentario, infatti, si snoda fra ricordi, confessioni, rivelazioni, come se fossero fatte ad un amico. Ma Tiziano non le fa ad un amico, le fa ad una telecamera. A milioni di persone che vedranno il documentario. E se l’effetto di empatia è reso magnificamente dal lavoro fatto sulla pellicola, l’effetto “caro amico ti scrivo” è stridente.
Tiziano reagisce, si fa aiutare da chi può aiutarlo, e anche oggi continua il suo percorso da Los Angeles. Come Rocketman, altro film proposto da Amazon Prime, anche Ferro inizia con un gruppo di recupero e l’inquadratura, dopo aver mostrato i vari “ciao mi chiamo… e sono un alcolista”, arriva su Tiziano. Anche questo momento di incredibile intimità diventa invece show. Questo racconto sulla caduta in sé di Tiziano sostituisce completamente il racconto di Tiziano come essere umano. Non si parla più di ciò che è, ma dei problemi che ha. Dice: «Se impari a rialzarti quando cadi, la gente non ricorderà la caduta ma come ti sei rialzato». Il tono è quello di uno che ha preso in mano per la prima volta un libro di Osho. Evidentemente non è stato così. “La gente”, come la chiama lui, non sta parlando di come si è rialzato, ma solo della caduta. Il problema, in un certo senso, ha preso il posto di Tiziano.
In questo docufilm, Tiziano è il suo problema. Lo dice chiaramente quando parla della necessità di liberarsi raccontando la verità. «La gente ti ama o ti odia comunque. Che almeno lo facessero per ciò che sono realmente». E cos’è realmente Tiziano? Solo una vittima della vita? Perché mi rifiuto di pensare che l’episodio legato all’abuso di alcool lo definisca per ciò che è, e mi rifiuto di pensare che qualcuno sia legittimato ad amarlo o ad odiarlo solo per il numero di cadute che ha avuto nel corso degli anni. L’altra volontà indiscussa del documentario è quella di mostrare un orizzonte di normalità, proponendo vari video inediti del cantante nel suo privato, dal matrimonio a Los Angeles alla relativa festa con amici e famiglia a Latina. Ed è subito effetto Ferragnez, col matrimonio in Sicilia, sempre dalla stessa piattaforma. Il sottotesto è il seguento: “Guardate, sono proprio come voi! Difendo il valore della mia intimità, fino a che non la vendo per farci un docufilm”. Quella normalità a cui lui non ha vergogna di aspirare, è in netta contraddizione con la produzione hollywoodiana dietro questo lavoro.
Tiziano non racconta la sua normalità, ma la esibisce, e anche sotto compenso, come è giusto che sia. E sapete perché è giusto? Perché Tiziano Ferro è un uomo di spettacolo, non un operaio metalmeccanico. E non voglio infrangere i sogni di nessuno, ma anche questo documentario è spettacolo, e come tutti gli spettacoli, è finzione. La realtà è sicuramente dolorosa, ma appartiene solo a Tiziano e non ad Amazon Prime. Non è un discorso di “patina filtrata”, come la chiama lui. È piuttosto un discorso di onestà. Certe storie, dolorose e personali, non vanno vendute. Non vanno sceneggiate. Vanno tenute al caldo della propria coscienza. E non per onestà verso lo spettatore, ma per l’onestà imprescindibile che si deve a sé stessi.
Chi ha visto e apprezzato questo documentario, ne ha parlato come un inno alla fragilità. “Finalmente abbiamo abbattuto il taboo dell’uomo che affronta i suoi demoni”. Ma quando mai! A quello ci ha già pensato Barbara D’Urso dieci anni fa, che sulle lacrime in televisione ci ha costruito una carriera che ha fatto la fortuna di Mediaset. Ma la colpa non è della D’Urso, o di Mediaset, o di Tiziano Ferro. La colpa è nostra, che abbiamo bisogno di queste manifestazioni per alleggerire i nostri drammi. Ognuno combatte una guerra silenziosa, ma solo pochi hanno la possibilità di farci un film su Amazon Prime, ed in questo, purtroppo, non ci vedo ancora nessuno spettro di normalità. Il dolore non va represso, è vero. Come è vero che va applaudita la volontà di risolvere i propri irrisolti. Ma ritorna lo stesso quesito iniziale: qual è il confine fra condivisone ed esibizione voyeuristica della propria disperazione?
Ripenso a Costantino della Gherardesca che dice che bisognerebbe cambiare canale appena qualcuno piange. Ma io non me la sento di dirvi di cambiare canale. Guardate pure e poi tornate alle vostre vite, consapevoli della differenza fra realtà e spettacolo. Consapevoli che quella è una strumentalizzazione del proprio vissuto, fatta affinché vi possiate emozionare e possiate immedesimarvi facilmente. Non vi dirò di non guardarlo, ma se mi chiedete cosa vedere sabato sera, probabilmente risponderei la finale di Ballando con le stelle.