Roma Capitale, Roma ladrona, Roma Capoccia der monno infame. La città eterna o la ami o la invidi. E proprio sotto i tetti di Trastevere, dove l’orologio sembra essersi fermato di almeno cent’anni ma le idee corrono come Ferrari, è nato il disco più sorprendente del 2017. Si chiama Polaroid ed è per certi aspetti più un album fotografico che musicale. Una raccolta di istantanee frutto del genio di Carlo Coraggio (Carl Brave) e Federico Bertollini (Franco126). Uno ha tradotto il suo nome in inglese ma è più romano della carbonara, l’altro ha passato ore e ore a contare (appunto) i centoventisei scalini di Via Dandolo, luogo di ritrovo della sua comitiva. Trecentosessantacinque giorni dopo Polaroid è ancora il racconto più vero della città eterna: «I brani l’abbiamo scritti in ordine sequenziale; quando è nato il primo non c’era il secondo e così via. Questa è stata un po’ la forza dell’intero progetto poiché ogni pezzo rispecchiava il mood del periodo in cui l’abbiamo scritto», racconta Franchino.
A dicembre Carlo e Franco hanno chiuso l’anno con il botto: Polaroid disco d’oro, che sommato ai dischi d’oro per i singoli fa un totale di otto statuette FIMI. Ma a loro sembra interessare poco: «Sia chiaro, il riconoscimento fa prende a bene ma non è per quello che noi facciamo musica. La cosa che più ci dà soddisfazione sono i fan che cantano le nostre canzoni sottopalco. Sono anni che facciamo musica ed è bello vedere che quando uno insiste alla fine i risultati arrivano». A prescindere dal fatto che piacciano un po’ a tutti (sold out a non finire e bla bla bla) Carlo e Franco sono entrambi molto brave. C’è da dirlo: loro sono uno spot per il nostro Paese perché, mentre i poeti si chiudono in casa a scrivere di amori surreali, e mentre i loro coetanei preferiscono fuggire all’estero, loro squagliano le ciocie sui sampietrini e danno voce al sentimento energico e genuino per la città che li ha cresciuti e li sta crescendo: «La gente si rispecchia nelle nostre canzoni perché parliamo di tematiche universali e anche se cantiamo in dialetto i nostri messaggi sono facilmente comprensibili anche al di fuori di Roma. Per dire, lo zozzone ce l’hanno tutti indipendentemente dal posto in cui si vive. Ce se capisce insomma».
Parlando con questi giovanotti si avverte il ragazzo fortunato che è in loro. Si intuisce il continuo senso di sorpresa, di scoperta e di riscoperta della bellezza in tutto ciò che li circonda e, alla fine, questo approccio paga sempre: «Comunque adesso stamo sempre nella solista piazzetta e beccamo sempre le stesse persone di prima. La vita non ci è cambiata poi così tanto». «Sì, esatto, rispetto a prima vado solo a cena fuori più spesso e non me magno più il sushi dell’all you can eat», aggiunge Franchino. Una romanità che viene fuori anche nel nuovo lavoro solista di Carl Brave – a cui seguirà un lavoro solista di Franco: quindici nuove tracce che usciranno venerdì sotto il nome di Notti brave. In Parco Gondar canta con Coez (“E io già ragionavo per due/Ballavi ti tenevo per la gonna/Cercavo l’ombra a Parco Gondar” suona già come la hit dell’estate) mentre in Chapeau con il rapper Frah Quintale («Insieme a Gianni Bismark e Giorgio Poi è l’artista più interessante dell’ultimo periodo», mi dicono i due good guys del rap).
In meno di un anno Carl Brave e Franco 126 sono passati dal suonare nelle discoteche di Roma a riempire i principali club di mezza Italia: quattro date all’Atlantico subito seguite da tre date all’Alcatraz. «Abbiamo sempre visto la musica come piano A. L’unico vero piano e l’unica vera possibilità», mi dicono consapevoli di avercela ormai quasi fatta. Nel frattempo, ne sono successe di cose: un disco diventato già un cult della nostra epoca, una tournée completamente sold out (tanto per dirla alla Tommaso Paradiso), la firma con il colosso della discografia mondiale Universal Music e un posto in prima fila tra i migliori autori della nuova scena rap. Gli undici pezzi del loro album di debutto suonano come un mix tra Calcutta e Gemitaiz anche se a loro di essere etichettati indie proprio non va giù: «Noi facciamo semplicemente il nostro genere, ovviamente siamo più rap che indie, anche perché detto sinceramente l’indie prima de Calcutta manco se lo sentivamo».
Calcutta a parte a Franco piace Gianni Bismark e Giorgio Poi. Ma se gli chiedi di scegliere tra Fabri Fibra e Lucio Dalla non sa rispondere, perché a loro piace il rap ma sono cresciuti anche a pane e cantautori. Di certo, a differenza di Carlo, a Franchino il basket interessa poco e tra Francesco Totti e Michael Jordan sceglie tutta la vita il pupone. Nella musica, si sa, vince sempre la purezza d’animo, l’intenzione. Le stecche (ormai corrette da auto-tune e altri barbatrucchi) e qualche barra di rappato storpiata o dimenticata rendono lo show più vero. Si perdona tutto in fondo, tranne la falsità. «Ci sono un sacco di progetti nati ultimamente che hanno fatto successo proprio perché imperfetti. Guarda ad esempio la Dark Polo Gang», mi dicono. Polaroid stesso per ammissione di Carl e Franco è un prodotto imperfetto che a risentirselo certe volte fa venir voglia di riaprire il file di Ableton. Ma i temi e l’umiltà dello stile di racconto del duo romano sono una formula vincente. Non hanno mai la presunzione di fare poesia, monologhi o tantomeno prediche. A loro basta descriverti quella scena, riportarti quella scenetta in tangenziale o quel sabato sera uguale a se stesso e a tutti i precedenti.
Il fenomeno dell’omologazione gioca un ruolo fondamentale nella carriera di Carl Brave e Franco126 perché, se da un lato la loro unicità li fa emergere («Dal punto di vista dei testi e della produzione Polaroid è stato una novità. Le produzioni ed il nostro timbro vocale sono riconoscibili come anche lo stile di scrittura») dal lato social è proprio l’effetto tendenza che ha iniziato a popolare le bacheche di mezza Italia: «I social negli ultimi anni hanno fatto emergere la meritocrazia nell’ambito musicale. Prima il successo di un artista era legato al produttore mentre oggi ai social. C’è da dire che noi semo usciti con una produzione abbastanza storta: canzoni mezze pop autotunnate e con ritornelli per niente convenzionali. Nessuno c’avrebbe scommesso na lira su de noi invece c’ha detto decisamente bene».