Cristiano Godano dopo «trent’anni di bella e fortunosa carriera con questo sodalizio imperituro con i Marlene Kuntz», così lo definisce durante la conferenza stampa di presentazione dell’album Mi ero perso il cuore, decide di debuttare da solista con un disco che prende forma nel suo immaginario circa tre anni e mezzo fa e diventa effettivo già da un anno. Anche l’uscita in questo particolare periodo storico, soprattutto per la cultura e gli artisti, non è lasciata al caso, «perché l’ho sentito estremamente connesso con un sentimento di vulnerabilità. C’è una parte di persone che alle opere d’arte impegnative non hanno voglia di dar peso, non vedono l’ora che tutto riparta e che si possa ritornare in spiaggia; ma c’è una parte di persone che invece hanno uno strascico di paura, sanno che c’è qualcosa di difficile da gestire – spiega Godano – Ecco, per quel tipo di persone questo disco potrebbe avere una sua forza empatica quasi di condivisione e di consolazione. Per questo ho pensato che fosse un bel gesto da parte mia per il mio pubblico, per sentirci più vicini».
Mi ero perso il cuore è la conferma che Godano è un grande scrittore di testi canzone, molto vicino alla poesia. Come lui stesso afferma, «quando scrivo i miei testi per canzone c’è un’esperienza che fa sì che io riesca anche a dominare quello che faccio, sempre di più. Come fanno gli scrittori ovviamente, uno scrittore di romanzi parlerà di esperienza, non è che tutto arriva per una specie di trasfigurazione o un dono divino. L’ispirazione esiste, poi va lavorata». Il frontman dei Marlene Kuntz già da tempo aveva ricreato situazioni musicali solitarie, un ibrido tra musica e parole, in cui dialogava con un interlocutore alternando i brani dei Marlene in acustico: «Questa cosa poco per volta mi ha fatto prendere molto entusiasmo nei confronti della sonata solitaria, con la chitarra acustica ho trovato un suono, un’interpretazione e quindi poco alla volta mi sono reso conto che non potevo continuare a suonare i pezzi dei Marlene Kuntz. A quel punto era doveroso avere dei pezzi miei personali per continuare questo percorso».
Se già con i Marlene Kuntz il pubblico era abituato al modus scribendi di Godano, in quest’album Cristiano mostra la sua più intima natura attraverso dei testi che lasciano poco all’immaginazione rispetto alla precedente produzione; tredici brani, più una bonus track (Per sempre mi avrai, contenuta soltanto nella versione in vinile) che «raccontano i demoni della mente, il coraggio della paura ed esibiscono una poetica vulnerabilità». Il tratto distintivo del disco è la consapevolezza che Godano ha raggiunto con l’esperienza nei suoi trent’anni di carriera con i Marlene Kuntz, maturando un forte senso di responsabilità soprattutto nei confronti del pubblico: «Fin dall’inizio mi sono ritrovato a rispondere ad un’affermazione impegnativa, mi si dava del poeta; ho capito che c’era una cosa di molto importante, un grande senso di responsabilità e non potevo ringraziare e basta; ho cominciato a capire perché me lo dicevano, ho cominciato a capire i meccanismi della poesia, quali sono i tratti che accomunano la poesia al testo di canzone e questo modo mi ha permesso di acquisire consapevolezza».
Una collezione di ballate acustiche, di canzoni sospese in un non-tempo in cui passato e futuro sono assenti; ma soprattutto un album che racconta «la mente che mente»; Godano non ha paura di mostrare la sua parte più vulnerabile, è un lavoro che nasce «da un’inquietudine che vivevo e vivo tuttora», spiega. Alcune tracce ricordano Dylan, Young e Cave, di cui l’artista si è sempre dichiarato un ammiratore, soprattutto per il modo in cui esprimono la loro arte tutt’altro che convenzionale: «Bob Dylan, Neil Young e Nick Cave sono artisti che quando hanno voluto parlare in maniera molto riflessiva e intimistica di loro stessi, da un punto di vista della vulnerabilità, lo hanno fatto. Sono influenzato da questa cosa, la trovo molto affascinante; anche le debolezze di un artista hanno un loro incredibile fascino, il pubblico che le sa intercettare ha la possibilità di enfatizzarle e di avere una visione molto più approfondita della materia che ama affrontare».
Ascoltando il brano che apre l’album, La mia rivincita, oltre a ritrovare nel testo il nome del disco, si percepisce il coraggio delle paura di quando si soggiace alla mente: «Ci lasciamo pervadere da pensieri ossessivi, questi si presentano a chi li subisce attraverso varie sfaccettature, ad esempio con delle maschere, una delle formule che ho trovato per dare un’immagine delle menzogne della mente». Mi ero perso il cuore è molto intimista anche musicalmente, non solo nei testi: Com’è possibile è un pezzo dall’anima country, Lamento del depresso insieme a Panico hanno un incedere rock molto forte. In particolare, in quest’ultima traccia il sax e il violino, suonati da Enrico Gabrielli, hanno un ruolo fondamentale; il primo è il suono di un sax nervoso, urbano, metallico, non troppo lontano dai fragori di certo free jazz, mentre il violino cuce la trama di una sorta di nevrosi.
Gli arrangiamenti (prodotti da Gianni Maroccolo, Luca A. Rossi, Simone Filippie e Godano) non sono fastosi, ma essenziali soprattutto perché sono canzoni che vivono di vita propria, nel senso che possono essere solo voce e chitarra, ma possono anche adeguarsi ad altri tipi di arrangiamento; l’unica certezza è che si discostano molto dalla produzione dei Marlene Kuntz, più vicini a sonorità di un rock stridente, alla maniera dei Sonic Youth, al rumore.