Gli esseri umani cercano di trasformare metalli comuni in oro almeno dal 300 dC. Fu in quegli anni che l’alchimista egiziano Zosimo di Panopoli mescolò senza successo zolfo e mercurio. Quattordici secoli dopo si cimentò nell’impresa, fallendo, anche uno scienziato importante come Isaac Newton. Ma procediamo velocemente fino al secolo scorso: Glenn T. Seaborg, premio Nobel per la chimica nel 1951. Con l’aiuto di un acceleratore di particelle, riuscì a trasformare una piccola quantità di metallo in oro. So a cosa state pensando ora: se siamo riusciti a fare ministro degli esteri uno che vendeva bibite al San Paolo, siamo capaci proprio di tutto, persino di rendere oro il metallo. Oggi basta una composizione chimica, un algoritmo matematico, una particolare formula fisica, e tutto diventa meglio di ciò che è. È proprio questa la bellezza della scienza. Però, anche la scienza ha i suoi limiti, e lì dove non arriva la matematica, arriva l’arte.
Bob Dylan ci ricorda che la poesia è la scienza più esatta dell’essere umano e che ovunque ci sia anima, c’è oro. Un premio Nobel per la letteratura non può esimersi dall’usare un certo linguaggio poetico, anche se si tratta di musica. Con Rough and Rowdy Ways, il suo ultimo album, quel linguaggio lo accompagna nell’autentica narrazione di storie e avventure che dipingono il ritratto di un’America distante, ma incredibilmente vicina. Un’America che Dylan ha omaggiato più volte, reinterpretando la grande tradizione del canzoniere tipico americano nei suoi ultimi album.
Proprio di quell’esperienza, il cantautore ha preso le parti più belle, quelle più affascinanti e peculiari: lo stile da dive bar californiano degli anni ’60, che sembra quasi di poter accarezzare la sua penombra o il legno del bancone bagnato dalla condensa della birra, l’atmosfera calda e ruvida della sua voce, impastata con le chitarre romantiche e nostalgiche che si avvicendano traccia dopo traccia. E poi, il blues. Quella malinconia sottintesa che acquisisce ancora più profondità alla vigilia dei suoi ottant’anni. Il brano che apre le danze, non poteva che anticipare il livello lirico e letterario costante in tutto l’album. Una lunga meditazione che trae spunto da una colonna portante della cultura americana: Walt Whitman (“Do I contradict myself?/Very well then I contradict myself/I am large, I contain multitudes”).
Si susseguono immagini, vite e personaggi diversi in un flusso di coscienza che ci accompagna alla seconda traccia, False Prophet, primo singolo estratto. E poi My Own Version of You, I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You con le loro atmosfere rarefatte, che pare di sentire l’odore del fumo di sigaretta nell’aria e di vedere le luci delle insegne al neon che lampeggiano al tempo lento delle spazzole sul rullante. Black Rider introduce la figura che ricorre più spesso nel suo album: la morte. Nella sua visione romantica, incorniciata da questo mandolino, la morte non è sinonimo di fine, piuttosto di confronto. La validità del tratto poetico si esprime nella sua massima potenza, ed il confronto diventa l’occasione per guardarsi alle spalle e fare i conti col passato.
Pagare il conto alla vita, guardarla negli occhi mentre si allontana dietro il bancone. Bob Dylan sembra raccontare sé stesso in questi termini, la sua età, la sua esperienza, ma anche quella di molti altri eroi americani, fra cui Jimmy Reed, cantato nel brano Goodbye Jimmy Reed. E poi Elvis e Martin Luther King, presenti in Mother of Muses, in questa sorte di ode al passato, con cui Bob sta facendo i conti. La morte riappare prepotente in Crossing the Rubicon, (“Three miles north of purgatory/One step from the great beyond”), fino alla conclusione del disco: Key West (Philospher Pirate). Una lunga ed emozionante ballata, che fa rifferimento all’isola posta alla fine di una lunga autostrada che solca l’oceano, il punto più a sud degli Stati Uniti.
Questo punto non è solo “the end of the line” ma il posto dove ritrovare se stessi: “Key West is the place to be if you’re looking for immortality/Stay on the road, follow the highway sign/Key West is fine and fair, if you’ve lost your mind, you’ll find it there/Key West is on the horizon line”. La fine non è solo il punto di arrivo, ma la parte più emozionante del viaggio. E così, anche la vita sembra avere senso. Ma questa non è davvero la fine, o almeno non per Bob, che aveva ancora una storia da raccontare. Un altro brano, di 17 minuti circa, registrato durante la quarantena e posto appositamente in un secondo disco, completa il lavoro quasi biblico del cantautore americano: Murder Most Foul. Il lungo brano racconta l’assassinio di Kennedy, e lo fa come se stesse scrivendo un racconto breve, un audiolibro pieno di immagini e figure retoriche. In questo brano, il cantautore racconta attraverso il più traumatico omicidio della storia degli states, una società che da quel disgusto non si è mai più ripresa.
Murder Most Foul è un brano che preso singolarmente potrebbe spiegare benissimo perché Dylan è un autore premio Nobel e perché con lui finisce quell’alone di assurda qualità che un certo tipo di artisti aveva, e che non ha più. Perché, in effetti, Dylan è ancora controtendente e nonostante i suoi 79 anni è ancora un ribelle. In un panorama musicale che guarda solo il passato più prossimo, Dylan ripesca la storia della cultura a cui sente di appartenere e a cui non appartiene più. Bob Dylan è un cantastorie quasi cinematografico. Un personaggio oltre il suo personaggio. L’uomo che sparisce dietro la sua voce e la coltre di polvere che questo genere sembra alzare davanti a sé. E mentre il mondo accorcia i suoi pezzi nella speranza che i servizi streaming premino la voracità dei suoi ascolti da nemmeno 3 minuti, Dylan scrive pezzi di 6, 9 o anche 17 minuti. Perché la poesia ha bisogno di tempo, di pause, e soprattutto di un ascolto serio. Ha bisogno di immaginazione, e sensibilità.
Chiudo gli occhi e lo immagino sul palco di quel locale alla periferia est di Malibù, seduto sullo sgabello arrugginito sotto l’unico caldo riflettore della sala, nell’afrore di magia e sudore di quelle notti d’estate, bevute alla goccia come la birra di quel motociclista che ha lasciato fuori la sua Harley Davidson. E da quel piccolo palco, Bob racconta di uomini e di donne, di star, presidenti e di morti di fame. Di amore e di violenza, di sognatori e disillusi, di vita e di morte. È nei suoi opposti che Dylan sa donare tutta la sua simmetria. Bob Dylan è l’equilibro perfetto fra ciò che siamo e ciò che sogniamo, in un tempo in cui non è più consentito sognare. Bob Dylan sa rendere il metallo oro, senza nessuna formula scientifica. Perché – ci spiega – le vere alchimie sono altre.