Sull’isola di Saint Martin, nel Mar dei Caraibi, è stato costruito un aeroporto della lunghezza di soli 2180 metri. Si sa, ognuno fa ciò che può con ciò che ha e le piccole dimensioni della pista costringono gli aerei ad atterrare sorvolando a bassissima quota una delle spiagge più belle dell’arcipelago caraibico. C’è chi scappa in acqua, chi abbassa la testa, o chi semplicemente si gode l’ombra offerta dai boeing che atterrano lì vicino. Le immagini fanno il giro del mondo, e magicamente, agli occhi di tutto il globo, quella spiaggia non esiste più. Niente più sabbia dorata, niente più acque cristalline. Solo aerei a bassa quota, il rombo fortissimo dei suoi motori e il fuggifuggi dei turisti meno abituati.
Succede spesso che le cose migliori vengano dimenticate e mi è capitato di ripensarci proprio in questi giorni che l’Italia vive il lutto di Ezio Bosso. È morto il musicista, “quello malato, quello in carrozzina”. Tutto si riduce alla sua malattia. Anni di studio, sacrificio e completa devozione alla musica, eclissati magicamente da quella malattia che lo aveva costretto a interrompere l’attività di musicista. Ma lo dico: Ezio Bosso non era la sua malattia. Ezio Bosso era tanto altro. Un maestro d’orchestra strambo, con le mani piene di anelli, i capelli nel loro perfetto disordine e la verve di una rockstar. E poi la carrozzina, è vero. Ma anche la sigaretta in bocca, il fascino di chi ha sempre la cosa giusta da dire, l’entusiasmo contagioso e la luce negli occhi di chi non cerca consensi perché ha chiara la sua missione.
Ezio è partito dal poco e nulla. Un sogno, quello di diventare maestro d’orchestra, e le prime difficoltà nell’essere accettato dal mondo della musica classica e dai suoi pregiudizi. Il figlio di un operaio deve fare l’operaio, così dicevano. Il pregiudizio riguardante la sua provenienza sociale ha anticipato di gran lunga quello nei confronti del suo stato di salute fisica. Era cosciente che la gente guardasse la sua malattia, e non lo negava neanche a sé stesso, piuttosto la sentiva come un’opportunità. La chance di poter arrivare a tutti, con quella musica a cui ha dato anima e corpo dalla più tenera età. A 16 anni inizia a girare per le orchestre europee, un passato popolare con la band degli Statuto durante il periodo del conservatorio, e poi lo studio di Composizione e Direzione D’Orchestra all’Accademia di Vienna. Vive la sua vita tra Londra e Bologna, dirigendo le più grandi orchestre europee e non solo.
Ezio compone e fa vivere. Scrive per Gabriele Salvatores la colonna sonora di Io non ho paura, Quo Vadis, Baby? e il più recente Il ragazzo invisibile. Nel 2015 il suo primo disco solista, The 12h Room. E poi Sanremo, in cui si esibisce con Following a Bird, un estratto del suo album, davanti a 14 milioni di persone. Una vita più densa del Ciobar dimenticato sul fornello troppo a lungo. 48 anni di esperienze, viaggi e, soprattutto, musica. E sì, si può parlare di lui senza neanche menzionare la sua malattia, per il rispetto e la volontà di Ezio di non essere solo un luogo comune. Per la voglia di renderlo eterno, ma non per la sua carrozzina, ma per il ricordo indelebile che ci ha lasciato. Per la sua capacità di divulgare quella musica che “ci insegna la vita” e che “ci aiuta a essere umani”. «A fine quarantena – diceva – la prima cosa che farò sarà mettermi al sole». Io lo immagino così, ora. Steso al sole di una spiaggia caraibica. Non c’è l’ombra di un aereo su di lui. Nessun’ala a sfiorare la testa e nessun rombo di eliche e motori. Solo una musica dolce che viene dal mare.