La grandezza di un film la capisci quando il titolo dello stesso compare dopo almeno una decina di minuti, tempo nel quale viene definito il perimetro della narrazione in modo asciutto, compatto e senza fronzoli. Altri, per dire, ci avrebbero costruito un paio di stagioni di una serie TV. Di Gabriele Mainetti se ne parla da più di venticinque anni, per il suo passato da attore ma soprattutto per il suo (più) fortunato percorso da regista. Dopo aver rilasciato due debutti folgoranti come i corti Basette e Tiger Man, agli occhi più attenti non è risultato come una sorpresa l’alta qualità del debutto sulla lunga distanza Lo chiamavano Jeeg Robot e quel Freaks Out passato immeritatamente in secondo piano causa uscita in piena pandemia. Film dai budget differenti ma che in comune avevano una sceneggiatura solida, un clamoroso utilizzo del budget e una scelta del cast mai banale capace, come nel caso di Luca Marinelli e il suo Zingaro, di costruire personaggi entrati dal primo momento nell’immaginario collettivo. Andiamo direttamente al punto: La città proibita è un fottuto capolavoro lungo il giusto e che riesce a beccare il difficile punto di equilibrio tra una cultura millenaria come quella cinese e quella iperlocale de Roma. Se poi questa sfocia inevitabilmente in uno scontro tra le loro strutture malavitose, beh, è un semplice dettaglio sfuggito di mano.
Come per i precedenti lavori di Mainetti, anche qui il cast è corale e presenta un ecosistema di personaggi incastrati perfettamente nella storia narrata. E se le acrobazie marziali di Yaxi Liu, quotata stuntwoman qui al debutto da protagonista, e di Shanshan Chunyu lasciano senza fiato, restano impressi anche i ruoli dell’impacciato Marcello interpretato da Enrico Borello e la vecchia guardia (Ferilli, Giallini e Zingaretti) che porta una strabordante romanità in una pellicola destinata ad un pubblico internazionale. Sì, perché ci sono molti dettagli che fanno pensare che questo film, nato col titolo provvisorio di Kung Fu all’Amatriciana, sia destinato a guardare all’estero. Mainetti ci aveva abituato a pubblicare in passato produzioni ben più ricche dei soldi a disposizione. Con un budget evidentemente più alto rispetto al passato, il regista romano confeziona un film di enorme qualità, nel quale riesce sia a dare un sentito omaggio alla sua città ma, soprattutto, a dimostrare una grande conoscenza anche tecnica del cinema di Hong Kong. Si spara alto, ma La città proibita è un film del 2025 che sembra uscito dalle produzioni dello Studio Shaw, grazie anche alla cura maniacale nelle riprese dei combattimenti, sia lato registico sia lato coreografico. La sceneggiatura è solida e riesce a conciliare l’evoluzione della storia tra i due protagonisti, prima di contrasto violento e poi amorosa, e i rapporti di Marcello con la sua famiglia allargata e la parte action della storia, che vede una ragazza cinese sbarcare nella Capitale per ritrovare la sorella. Peccato che lei, dietro l’aspetto apparentemente gentile, sia in realtà una persona spietata, che punta ad arrivare all’obiettivo senza scrupoli e, se servisse, eliminando ogni ostacolo che le si trovasse davanti.
In una trama ben scritta nella quale sono presenti alcuni colpi di scena, a rubare la scena è l’enorme Marco Giallini, attorno al quale è stato costruito il ruolo di un piccolo criminale in caduta continua, dalla pesante cadenza romana, che non accetta che “nel suo territorio” stiano arrivando i cinesi pronti a comprarsi la città, nascondendo la loro cieca violenza dietro citazioni della filosofia orientale. Anche personaggi secondari come il rapper Maggio, figlio in aperto contrasto con l’antagonista Wang, o l’aiuto chef di Marcello nel ristorante servono in realtà a definire caratteristiche dei personaggi principali e completare un microcosmo che, in poco più di due ore, crea una storia autoconclusiva capace di accelerare quando serve e fermarsi quando serve, non per tirare il freno ma per integrare dettagli fondamentali per il proseguimento di quello che di base è un film action. La città proibita, oltre a confermare il talento di Gabriele Mainetti, potrebbe diventare la sua rampa di lancio a livello internazionale: pur improntato nella località capitolina, il film è una riuscita opera che appare ben più costosa di quanto possa sembrare. E se a questo dettaglio abbini tutti gli altri ingredienti il pensiero può essere solo uno: è arrivato il momento di dare al Mainetti una grande produzione. Che questa sia statunitense, europea o asiatica, beh, sarà il tempo a dirlo.