dark mode light mode Search Menu
Search

L’eremita Tamino con “Every Dawn’s a Mountain” ha ritrovato la luce

Limpido, a fuoco. “Every Dawn’s a Mountain”, il terzo lavoro in studio di Tamino prodotto insieme all’amico di lunga data PJ Maertens, suona come suona chi ha prima imparato ad ascoltarsi

Il nono arcano maggiore dei tarocchi illustrati da Pamela Colman Smith, l’Eremita, è un vecchio saggio che cammina nella neve con una lanterna in mano: torna da qualche parte, solo lui sa da dove. Forse dal fianco di una montagna, forse da quello di un’alba, che per Tamino, in Every Dawn’s a Mountain, alla fine sono la stessa storia. Luoghi dell’inizio. Posti buoni per comporre canzoni che somigliano a preghiere, preghiere che suonano come schegge di alt-rock cantautorale diluito nella solennità del sound mediorientale. Nel nuovo album, prodotto insieme all’amico di lunga data PJ Maertens (in collaborazione con Eric Heigle, Alessandro Buccellati, Chris Messina, Zach Hanson e Jo Francken), l’artista belga di origini egiziane aggiunge maturità artistica alla scapigliata spontaneità mistica con cui si era presentato ai tempi di Amir. Limpido, a fuoco. Suona come suona chi ha prima imparato ad ascoltarsi.

Every Dawn’s a Mountain è un lavoro che, afferma lo stesso Tamino, nasce da «un’enorme urgenza», quella «di costruire un altare metafisico per ciò che era andato perduto». Ecco la nostalgia che ritorna (e bentornata), dopo la meno convincente parentesi di Sahar, dove lo sguardo rivolto all’interno aveva un po’ perso di vista quel fuoco che, spiega ancora, «può divampare con grande forza: così la maggior parte di queste canzoni sembra esplodere nella propria essenza». Come quando la voce detona cruda – ma leggera – sopra il tappeto di archi nell’ultimo ritornello di Babylon, singolo dai toni epici che riecheggia le atmosfere di Persephone; o nella danza di fragilità che nasce e cresce tra le armonie di Sanctuary, il duetto con Mitski che ha anticipato nelle scorse settimane l’uscita del disco e che, a causa del perfezionismo di Tamino, rischiava di non esserci. «Due settimane prima della nostra sessione in studio – racconta lui stesso – avevo dei dubbi sul fatto che la canzone che avevo scritto fosse adatta per un duetto. Ho chiamato il mio amico Alessandro Buccellati a casa mia, a New York, e abbiamo composto Sanctuary in poche ore».

«La mattina seguente ho scritto il testo, registrato un piccolo demo e l’ho inviato a Mitski, che l’ha adorato e, come me, l’ha preferito all’altro pezzo». Poi, dopo le fiamme, resta lo spazio per lasciarsi cullare nel silenzio (come suggerito in Willow – che può spaccarvi il cuore, o almeno incrinarvelo, anche in questa versione live) e nella tela di suono dell’oud, strumento a corde della tradizione araba che «è di nuovo un elemento importante – ci dice – e un pilastro sonoro fondamentale per l’album», verso un finale in cui tutto si dissolve (Dissolve) con sollievo. E lì, tra le macerie, Tamino può finalmente spiegarci cosa ha visto e soprattutto cosa ha sentito, nel suo viaggio da eremita tra gli studi di registrazione di New Orleans, New York e Bruxelles e nel tragitto del suo sguardo posato sugli eventi: “Una linea che si scioglie tra un’anima e l’altra/Che io tesserò dentro la mia canzone/Ancora e ancora”.