In fisica, il principio di indeterminazione di Heisenberg stabilisce che l’atto stesso di osservare una particella ne altera irrimediabilmente lo stato. Nessun sistema può sottrarsi a questa regola, nessuna entità può esistere senza essere in qualche modo trasformata dallo sguardo esterno. Eppure, Teamcro sembra sfidare questa legge naturale, muovendosi in un territorio insondabile, immune alle forze che tendono a plasmare e uniformare. Non è un progetto che si piega, né che cerca di compiacere. La loro musica esiste in un equilibrio misterioso tra caos e coerenza, come se fosse dotata di un nucleo intangibile, resistente a ogni tentativo di incasellamento. Ogni suono, ogni immagine, ogni parola sembra scolpita da un’urgenza interiore, senza mai perdere di vista la dimensione collettiva. Osservarli non significa modificarli, ma piuttosto entrare in un universo che esiste a prescindere da chi lo guarda. In questa intervista, abbiamo provato ad intercettarne le coordinate.
Che ruolo ha la fiducia in un collettivo che vuole fare arte?
Noi siamo tutti diversi, ma c’è un fil rouge che ci unisce. Fidarsi del fatto che chiunque di noi possa portare avanti un’idea, arricchirla, stravolgerla, migliorandola attraverso un semplice feedback o un intervento musicale, lirico o grafico è l’unico modo per riuscire a pubblicare qualcosa.
Come ci riuscite?
Un modo utile per evitare di disperdere energie è sposare la filosofia del Trust the process e arrivare con idee già definite, pronte per essere sviluppate insieme. Non siamo partiti da un foglio bianco con l’intenzione di fare un album collettivo da zero: avevamo dei punti di partenza, poi li abbiamo plasmati attraverso jam sessions. Sapere che la tua idea verrà in parte stravolta è stimolante, soprattutto perché tra noi il rapporto è disteso. Prima ancora che collaboratori, siamo amici, e questo fa funzionare tutto il resto.
Mi raccontate il brano Nic in para?
(Michael Mills, che l’ha prodotto, prende la parola ndr.) Nic Paranoia ha ascoltato decine di volte The Head Hurts But the Heart Knows the Truth di Vegyn e Headache, un disco che esplora l’idea di parlare sopra produzioni molto elettroniche. Un giorno mi ha detto, un po’ per scherzo e un po’ per capire cosa ne pensassi, che avremmo potuto fare un pezzo del genere. Così ha registrato questa stranissima cosa che vedeva dal palazzo in cui vive, e io ho cercato di posizionarla su un sound che supportasse quel viaggio. A essere onesto, all’inizio non ero convinto del risultato, ma – come dicevamo prima – in un collettivo è cruciale fidarsi delle sensazioni altrui. A loro piaceva moltissimo, e alla fine avevano ragione.
A quel punto cito Simbiosi degli Afterhours, che mi ricorda il loro brano e che considero uno degli esperimenti più riusciti della carriera di Agnelli e soci. Appena lo faccio, vedo i ragazzi appuntarselo. Più avanti mi diranno che non conoscevano quel brano e che non vedono l’ora di ascoltarlo. È una conferma della loro curiosità inesauribile, della loro attitudine a scoprire, a lasciarsi contaminare. Quando mi è stato sottoposto teamcro tape, ho subito avvertito una sensazione epidermica che mi ha riportato a Naked Lunch – prima il film di David Cronenberg, poi il romanzo di William Burroughs che lo ha ispirato. Non perché il lavoro di Teamcro sia cervellotico o di difficile comprensione – etichette che negli anni la critica ha spesso attribuito al Pasto nudo – ma perché Teamcro tape emana un senso di assoluta, anarchica libertà. È in quel momento che chiedo ai ragazzi cosa abbia influenzato la genesi del disco. Inizialmente mi rispondono che non ci sono state reference precise, perché ognuno porta con sé suggestioni personali. Eppure, qualche attimo dopo, due titoli si sono materializzati sullo schermo durante la videoconferenza: L’arte come mestiere di Bruno Munari, che conosco bene, e Il profeta di Khalil Gibran, che invece non ho ancora letto. Mi spiegano che questi libri non hanno ispirato direttamente i brani, ma hanno contribuito a costruire i presupposti umani per scrivere e produrre in un certo modo piuttosto che in un altro.
Ma cosa c’è nel Daily Mix di Teamcro?
(Eden inizia a scartabellare le sue playlist ndr.) Kavari, Sega Bodega e Post Nebbia. Poi rivelano di avere una playlist collaborativa che spazia dalla musica classica al punk rock tradizionale, passando per Simba La Rue, Martina Camargo, Lil B, gli Squid e Dean Blunt.

Cosa ne pensate dei Post Nebbia?
Sono nostri amici, e anche se facciamo musica diversa, le intenzioni e l’attitudine sono condivise. Forse esteticamente sembriamo lontani, ma alcune cose che hanno fatto sono state curate da Giorgio Cassano e Bruno Raciti, che sono parte del nostro collettivo.
A proposito di playlist, mi raccontano che la loro più grande paura era proprio quella di creare una raccolta di brani senza una vera identità di album. Ma alla fine, teamcro tape ha una forte coerenza, perché riesce a raccontare tanti mondi attraverso uno sguardo comune, reso solido dall’affiatamento del gruppo. Il vero ingrediente segreto, però, è la diversità: la missione è restare in bilico tra l’identità personale e quella collettiva. «In generale, proprio l’eterogeneità dei nostri gusti contribuisce a costruire una palette sonora peculiare e, a suo modo, non replicabile. Per esempio, La faccina che ride nasce da un campionamento di un brano di Ariana Grande. Questo certifica che siamo pronti a raccogliere qualsiasi cosa ci piaccia, anche – e forse soprattutto – quando appare lontanissima da noi». Poi mi spiegano che a volte è un’immagine a innescare la scintilla per un producer, più che un suono, perché anche le canzoni hanno colori, tratti e composizioni, proprio come un’opera pittorica.
Quale sentimento o emozione resta più difficile da trasformare in musica?
Tutto ciò che riguarda i sentimenti di lungo periodo. Viviamo in un’epoca complessa, instabile. È più facile scrivere canzoni tristi, mentre sembra quasi strano provare a raccontare la speranza, soprattutto nel nostro genere. Ma io credo che ogni tanto sia necessario. Lo facciamo anche noi, con un pizzico di ironia dentro cui si nasconde un oceano di struggle. Tenco, quando gli chiedevano: “Perché scrivi solo canzoni tristi?”, rispondeva: “Perché quando sono felice, esco”. È un pensiero che ci torna spesso in mente. Alla fine, paradossalmente, è più difficile scrivere canzoni gioiose, ma è importante riuscire a trasmettere emozioni diverse.
Qual è il vostro rapporto con il mainstream?
Aprirsi al pop non sarebbe un problema, ma non lo ricerchiamo. Il linguaggio che ci rappresenta oggi è underground perché ci aiuta ad esprimerci meglio. Se si presentasse un’opportunità su un grande palco o con una major internazionale, dipenderebbe tutto dalle condizioni. Se ci fosse totale libertà, perché no? Ma la verità è che, in Italia, difficilmente sarebbe così. Ci sono artisti che finiscono in quel frullatore all’improvviso e ne escono distrutti. Noi preferiamo crescere in modo graduale, senza compromessi sulla qualità della nostra musica. Detto questo, anche odiare il mainstream è tossico. Non ha senso. Chi dice che il pop fa schifo a prescindere ha una visione troppo ristretta della musica – e della vita.
Cosa vi piace del pop?
Ieri in macchina stavamo ascoltando Bad Bunny. Non convince tutti noi allo stesso modo, ma ha un fascino indiscutibile.