C’è chi almeno una volta ha intonato, in coro, “Oh-He” di Ho Hey dei The Lumineers, e chi mente. Il brano, nel 2012, porta alla consacrazione la band fondata da Wesley Schultz e Jeremiah Fraites, cresciuti a Ramsey, a sud di New York. La canzone viene utilizzata come sigla della serie tv Hart of Dixie: da quel momento il gruppo, con un EP dimostrativo pubblicato nel 2009, vede accendersi i riflettori su un fortunato percorso inaugurato dalle prime apparizioni live sul palco del Meadowlark, un piccolo locale nei dintorni di Denver, dove Wesley e Jeremiah si trasferiscono, decidendo di aggiungere alla formazione la violoncellista Neyla Pekarek. La storia dei Lumineers è intrisa di perseveranza e autenticità, proprio come il sound di derivazione folk-rock tradizionale che da sempre li contraddistingue. Melodie essenziali ed evocative, unite a testi carichi di suggestioni emotive, sono state il trait d’union della loro discografia: dall’album omonimo di debutto del 2012, supportato dalla Dualtone Records, a Cleopatra che, nel 2016, conferma il loro successo, esordendo ai vertici delle classifiche statunitensi e britanniche – «Abbiamo voluto mantenere lo stesso approccio del primo album, registrando demo in una piccola casa a Denver – raccontava Wesley Schultz – passando per il disco III, un concept oscuro e intenso sulle dinamiche familiari e la lotta contro le dipendenze, fino a Brightside. Incontro Jeremiah Fraites alla vigilia della pubblicazione di Automatic, il quinto lavoro in studio della band.
Automatic segna una tappa importante nel vostro percorso artistico: vent’anni di successi, musica e anche scrittura insieme. Tutto il materiale prodotto e pubblicato dai Lumineers è opera tua e di Wesley. In questi venti anni, come è evoluto il vostro modo di creare musica?
Il nostro processo creativo si è evoluto nel tempo, permettendoci di lavorare con una maggiore rapidità ed efficienza. Dopo vent’anni di collaborazione, la connessione tra me e Wes è diventata quasi automatica (ride ndr.). C’è un detto nell’industria musicale che mi fa sempre riflettere: hai dieci anni per scrivere il tuo primo album e solo uno per realizzare il secondo. Molte band, secondo me, inciampano proprio su questo passaggio perché hanno dedicato tanto tempo al primo lavoro, ma poi devono affrontare una pressione enorme per replicarne con i successivi, in tempi molto più stretti. Nel nostro caso, Cleopatra, il secondo album, ci ha richiesto circa sei mesi di scrittura. Con il terzo album siamo scesi a tre mesi, il quarto è nato in un solo mese.
E Automatic?
È stato scritto in appena quattro giorni, a Denver. Con Wes abbiamo composto sette brani in quattro giorni. È stato uno dei periodi più fertili e intensi della nostra carriera artistica. Penso che questa rapidità sia il frutto di anni di scrittura condivisa e di un’intesa ormai consolidata.
E tutto questo funziona anche se oggi vivete in due continenti diversi? Tu ora abiti a Torino, mentre Wes è ancora a Denver.
Il nostro metodo di lavoro non è cambiato. Per me la scrittura di canzoni è un processo continuo: prendo appunti mentre cammino, quando sono in tour o nel backstage. Poi invio le idee a Wes. È sempre stato il nostro modo di lavorare, e sorprende vedere come, dopo tutto questo tempo, continui a funzionare così bene.
Automatic racchiude in chiave musicale una immagine molto rappresentativa di quest’epoca, in una linea di confine sempre meno marcata tra realtà e finzione. Dall’altra parte emerge un profondo senso di connessione, sia tra voi come artisti sia a livello di empatia con coloro che ascolteranno le canzoni.
Credo che alcune parti dell’album riflettano nei testi la natura del nostro rapporto: quando trascorri così tanto tempo con una persona, assorbi sia il bello che il brutto. In un certo senso, è come un matrimonio. Siamo entrambi sposati, certo, ma il nostro è un legame altrettanto intenso e profondo. Inevitabilmente, i testi di Automatic affrontano anche il tema della vita nell’era moderna, nel 2025, e le difficoltà legate al mantenere la concentrazione in un mondo costantemente invaso da distrazioni: social media, smartphone, una miriade di stimoli continui. Ma, alla fine, la cosa più importante è che la gente possa semplicemente premere “play”, ascoltare l’album e lasciarsi trasportare dalla musica, senza sentirsi obbligata a conoscere ogni dettaglio della sua creazione. La musica deve essere un’esperienza libera, un rifugio in cui ognuno può trovare qualcosa di personale.
La copertina dell’album con le bande colorate degli schermi analogici, così come il video di Same Old Song, richiamano una connotazione analogica, quasi nostalgica da certi punti di vista.
Viviamo in un mondo iperconnesso e automatizzato, dove tutto è istantaneo, filtrato e perfettamente ottimizzato. Ma proprio questa velocità può farci sentire disconnessi da noi stessi e dagli altri.
Come si concilia questo con Automatic, che sembra indicare poi un universo opposto, automatico e automatizzato?
In Automatic volevamo esplorare questo contrasto: da un lato la realtà odierna, fatta di automatismi e stimoli continui, dall’altro il desiderio di recuperare un senso di autenticità, qualcosa che ci riporti a momenti più semplici e analogici. Non è tanto una critica alla modernità quanto un tentativo di bilanciare questi due mondi. In fondo, il titolo stesso è una provocazione: parliamo di automatismi emotivi, di reazioni istintive, ma anche della nostra lotta per restare presenti, consapevoli. Ecco perché, pur utilizzando riferimenti visivi nostalgici, l’album suona incredibilmente contemporaneo.
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Avete definito Automatic il «vostro album più personale», cos’è che lo rende tale?
I nostri testi sono sempre stati ispirati da storie, anche dalle nostre storie, ma questo album è particolarmente personale. In alcuni versi, quasi in modo inconscio, si dice: “Mi venderesti alla prima occasione che hai? Sei tutto ciò che ho“. Per me rappresenta quel lato oscuro, paranoico o ansioso, che a volte emerge nelle relazioni. Ma poi arriva la seconda parte del testo: “Sei tutto ciò che ho”, che invece riconosce l’importanza dell’altro, la profondità del legame. Ogni relazione che vale la pena di essere vissuta richiede impegno, ed è proprio questo che la rende speciale.
Questo concetto si traspone anche nel vostro legame come band?
Da questo punto di vista, anche far parte di una band per vent’anni è un traguardo significativo. Oggi vediamo molte figure singole dominare le classifiche come artisti solisti – Taylor Swift, Billie Eilish, Noah Kahan – e siamo orgogliosi di essere ancora una band dopo tutto questo tempo. Il nostro legame si è evoluto, ma è rimasto saldo, e questo traspare nella nostra musica.
Sulle piattaforme streaming appare il countdown per l’uscita dell’album e si possono già intravedere i titoli di tutte le tracce. Mi ha colpito la parte centrale del disco, con i due titoli Plasticine e Ativan, uno di seguito all’altro. Rimandano a significati, concetti, dimensioni più crude, complesse, anche un po’ grigie.
Quando pensiamo alla sequenza delle tracce, non ci limitiamo a un approccio funzionale o commerciale. Immagino che alcune band o artisti pensino solo ai singoli di successo, ma per noi l’ordine dei brani è fondamentale. Dopo cinque album, ci dedichiamo ancora con estrema cura a decidere come ogni canzone si inserisca nel flusso narrativo complessivo. È un processo fatto di prove ed errori. Ad esempio, abbiamo scelto di aprire l’album con Same Old Song perché ci sembrava il modo più efficace per stabilire subito un’energia coinvolgente. Poi abbiamo testato diverse sequenze, ascoltando l’album in contesti diversi, persino in macchina, lontano dallo studio, per capire se il ritmo complessivo funzionasse. Brani come Plasticine e Ativan hanno un ruolo chiave in questo equilibrio. Ativan, più lenta e intima, è una delle mie preferite dell’album e posizionarla nel punto sbagliato avrebbe potuto compromettere l’intero flusso emotivo del disco. La sequenza delle tracce è come un racconto: ogni brano ha una funzione specifica.
L’album è stato registrato in meno di un mese all’Utopia Studio di Woodstock. Avete dichiarato che la sessione è stata ispirata dal documentario Get Back dei Beatles.
Uno dei produttori (David Baron ndr.) ci ha inviato a vedere il documentario dei Beatles, dove la band si trova a suonare insieme nella stessa stanza, come si faceva una volta. È stata una gigantesca ispirazione. Abbiamo voluto ricreare quell’atmosfera, trasformando una stanza normale in uno studio di registrazione dal vivo. Quando sono entrato, c’erano tre pianoforti – uno grande coda e due verticali – due batterie, chitarre e microfoni già pronti. Era tutto impostato in modo che potessimo semplicemente metterci a suonare e registrare. Così i confini tra demo e versione definitiva sono diventati molto sfumati, rendendo il processo molto più spontaneo.
Senza spoilerare troppo, c’è un aspetto in particolare su cui avete puntato per la preparazione dei prossimi concerti (il 27 aprile suoneranno all’Unipol Forum di Milano)?
Per noi è entusiasmante poter andare in tour. Essere una band americana e suonare in Europa, Asia, Australia. Quando abbiamo pubblicato il nostro primo album, ci sembrava un sogno poter esibirci in Europa. Ora che possiamo farlo, investiamo molto tempo nelle prove per offrire live che possano far esclamare “wow”! Chi viene ai nostri concerti spesso rimane sorpreso: siamo più rock e più energici di quanto si aspettino, qualcosa di molto diverso dall’ascolto dell’album. È un’esperienza totalizzante che ci connette profondamente con il nostro pubblico.
Automatic suggerisce anche qualcosa di istintivo, a presa diretta. Se dovessi descrivere l’album, distillandolo in una sola parola, qual è la prima che ti viene in mente?
Forse riflessivo? No, anzi… terapeutico.
Foto: Noa Griffel
Digital Cover: Jadeite Studio
Coordinamento redazione: Emanuele Camilli
Ufficio stampa: Marina Visintin – KINDA