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Ginevra e l’arte di scorrere in direzione ostinata e contraria

Dalla meditazione al silenzio, passando per il rock e il folk: Ginevra racconta come è nato “Femina”, il suo disco più intimo e personale: «Per me non conta interrogarsi sui numeri», dice

La musica di Ginevra è un po’ come un fiume che trasporta significati e Femina, con quel suo modo potente e al contempo delicato di tratteggiare la femminilità in tutte le sue sfumature, mi ha fatto tornare in mente il concetto giapponese del nagare. Questo termine indica il flusso continuo, qualcosa che cambia forma senza mai perdere la sua essenza. Ogni brano dell’ultima fatica in studio della cantautrice torinese sembra portare con sé proprio questa qualità: forza e fragilità si intrecciano, il suono si trasforma ma non si perde mai. E come un fiume, con le sue anse e deviazioni, questo nuovo progetto ha un proprio posto nel mondo e un carattere ben definito, ma il suo viaggio è sempre lo stesso: andare avanti, spostarsi, superare ostacoli.

Quando ci siamo sentiti l’ultima volta, mi avevi raccontato che Diamanti nasceva da un universo sonoro fortemente ispirato ai Portishead, agli Autechre e ai Massive Attack. Invece, quali ascolti hanno nutrito la genesi di Femina?
Le band che hai menzionato sono per me colonne portanti che non smetteranno mai di influenzarmi. Tuttavia, con Femina ho cercato di indagare nuovi linguaggi, permettendo all’elemento folk e cantautorale di trovare il suo spazio nei brani. Questo mi ha portato a scoprire e approfondire le sonorità di artisti come ad esempio i Mazzy Star, i Cardigans o Joni Mitchell. Spero che quel tipo di intimità sonora si percepisca chiaramente nel disco, perché è il fulcro attorno a cui si muovono tutte le altre componenti.

C’è anche una vena più rock che emerge dalle tracce, o sbaglio?
Non ti sbagli affatto. Ovviamente abbiamo deciso di affrontare il rock con un approccio contemporaneo, affinché si legasse bene alla nostra identità: penso, ad esempio, alle ritmiche che sono state ispirate spesso ai pattern dei Radiohead.

Che poi un po’ di elettronica è rimasta, penso a La fonte.
Vedi, pur spogliandosi in parte della componente elettronica che aveva caratterizzato Diamanti, questo disco non abbandona del tutto quel linguaggio. Sono cambiata, certo, ma le mie radici sono sempre lì, e credo che passato e presente in questo disco convivano in una nuova forma.

Restando sui Radiohead che citavi prima, possiamo dire che sei uscita dal tuo periodo Kid A per entrare nel tuo periodo In Rainbows?
(Ride, ndr.) In Rainbows è proprio qui vicino a me in questo momento. È stato un disco che, più di altri, ha segnato un punto di svolta per noi. Credo davvero che sia uno dei lavori più riusciti di Thom Yorke, una fusione di sperimentazione e purezza che continua a essere fonte inesauribile di ispirazione.

Hai fatto bene a citare Yorke, perché penso che la sua straordinaria sensibilità musicale sia ciò che rende coerenti progetti molto diversi tra loro – ad esempio The Smile e la sua carriera solista sembrano agli antipodi, eppure restano coerenti. Questo è qualcosa che, in fondo, ritrovo anche in te.
Mi fai commuovere con questo complimento. In effetti, con Marco e Francesco Fugazza, ma anche con Domenico Finizio, abbiamo spesso parlato di quanto la sensibilità di Thom Yorke rappresenti un modello per noi. Non è solo il suo approccio alla musica, ma anche quella capacità di rimanere fedele alla propria essenza pur evolvendosi continuamente. Questa idea di coerenza nell’evoluzione tra l’altro è qualcosa che sentiamo profondamente, e che cerchiamo di portare anche nel nostro percorso.

È bello che parli sempre al plurale e non perdi occasione per citare i tuoi collaboratori.
È un atto naturale, perché siamo davvero una cosa sola. In ogni passo che facciamo, c’è sempre la mano di tutti. Anche se il progetto si chiama Ginevra e nominalmente è solista, in realtà è la somma delle nostre individualità a dare vita a ciò che facciamo. Non siamo mai stati soli in questo cammino: la collettività è la nostra forza, e la matrice sonora che ci unisce è ciò che ha dato solidità al progetto fin dall’inizio. Ogni volta che creiamo qualcosa, è sempre il risultato di un lavoro di squadra, di un dialogo continuo tra le nostre diverse sensibilità.

A volte penso a quanto sia difficile fare arte ad alto livello, consapevoli che verrà capita fino in fondo solo da pochi. È qualcosa che ti infastidisce?
Sto parlando con te e mi sembra che parliamo la stessa lingua. Ecco, io faccio musica per quelli come te, per quelli come noi. Persone rare, che ricercano buona musica, che sono disposte a spingersi oltre la superficie e a pretendere di più. È proprio da queste persone che può nascere una rivoluzione culturale. Per me, non conta interrogarsi sui numeri o sulla visibilità immediata. Alla fine, so che riuscirei a fare musica solo in questo modo, perché è l’unico che sento davvero mio. Non mi interessa compiacere una massa. Quello che conta è la connessione profonda con chi sa cogliere l’essenza di ciò che faccio.

Foto di Giulia Gatti

L’ultima volta che ci siamo sentiti, avevamo parlato del tuo rapporto con la natura, partendo da un post in cui ti definivi “ragazza di fiume”. Ora quella dicitura è diventata una canzone. Me ne parli?
È nato tutto lì, proprio da quel post: piedi nudi nell’acqua fredda, un libro in mano, un frutto. Sono felice che ti ricordi di quella cosa di cui parlammo al telefono, perché è effettivamente la genesi dell’immaginario visivo che abbiamo costruito per Femina. Essere una ragazza di fiume è un’immagine che mi rappresenta profondamente: potessi stare tutti i giorni in quella bolla, sarei la persona più felice del mondo (ride, ndr.). C’è qualcosa di primordiale e incontaminato in quel concetto che sento davvero mio. È il ritorno alla semplicità, all’autenticità, alla purezza di un contatto diretto con la natura.

A proposito di immaginario visivo, da dove nasce questa scelta fotografica molto bergmaniana, elegante e sofisticata?
Le scelte per questo progetto sono state dettate dal voler assecondare tutto ciò che emergeva, sia sul piano sonoro che visivo. Mi interessava creare qualcosa di autentico, e così, se sul lato musicale ho scelto di dare spazio alle chitarre e agli strumenti suonati, sul piano visivo ho voluto abbandonare una dimensione eterea per avvicinarmi a qualcosa di più tangibile, personale. Ho cercato la purezza della fotografia, qualcosa che fosse più palpabile, che parlasse davvero di me. La pasta delle foto, la loro texture, è merito di Giulia Gatti, la fotografa che ha realizzato gli scatti.

Come ti sei trovata a lavorare con lei?
È stata la prima volta che lavoravamo insieme e mi sono innamorata subito del suo approccio, della sua sensibilità. Per lei, tra l’altro, è stata anche la prima esperienza nel mondo della musica. Ha sempre esplorato la fotografia d’autore, nei suoi viaggi in giro per il mondo, e non aveva mai neanche sfiorato l’universo dello scatto di moda o commerciale. C’è qualcosa di incredibilmente puro nel suo lavoro, qualcosa che si riflette perfettamente in ciò che volevo esprimere.

E poi, è una Femina
Esatto, questo è un elemento cruciale. Cercavo una lente femminile, uno sguardo sensibile e autentico, proprio come quello di Giulia. Ci tengo a precisarlo, però, senza voler rinnegare i lavori passati con Tommaso Ottomano. Lui è un artista che stimo profondamente, oltre ad essere un amico.

In questi giorni abbiamo perso David Lynch, probabilmente il regista che più ha indagato quel mondo che inizia quando ci addormentiamo. Sei una ragazza che sogna, oltre che a occhi chiusi, anche ad occhi aperti?
La componente spirituale è davvero fondamentale per me. In questi anni, approfondire la mia consapevolezza e la mia identità attraverso lo yoga e la meditazione mi ha permesso di trovare un equilibrio interiore. Alcune visioni che hanno ispirato la mia musica sono nate proprio in quei momenti. Tuttavia, è più complicato per me raccogliere suggestioni dai sogni, perché ne faccio moltissimi, ma quasi sempre frammentati. In verità, la maggior parte dei miei sogni sono incubi, forse perché la dimensione onirica è il luogo dove riverso le mie ansie e le mie paure.

È sempre stato così?
Sì, fin da piccola. Ho avuto anche un sogno ricorrente che mi terrorizzava. È una cosa che mi accompagna da sempre. Potremmo dire che sogno molto, ma male (ride, ndr.). Per ora non sono ancora riuscita a trasferire quelle suggestioni nella mia musica, però non escludo che possa succedere in futuro, perché pensandoci bene quella dimensione mi affascina.

In trent’anni parli di tua nonna, vero? Se ho capito bene, la spilla che è al centro del visual del brano le apparteneva.
Sì, sono legatissima a lei e a tutti i suoi oggetti. Quel brano è nato nei giorni subito dopo la sua scomparsa e inizialmente voleva essere una canzone dedicata solo a lei, poi però ho pensato che fosse interessante parlare dei suoi trent’anni e di come quei trent’anni risuonassero con i miei, che li compivo proprio in quei giorni. La sua spilla è per me un oggetto dal valore intrinseco inestimabile. In generale, ogni brano del disco è legato a degli oggetti simbolici: la benda, il taccuino, l’arco. Tutti sono piccole tracce di un’immaginazione che si nutre di ricordi e di esperienze, che a volte diventano essenziali per comprendere il presente.

I suoni sono il fulcro della tua vita, ma cos’è per te il silenzio?
Il silenzio è essenziale. Ora che me lo fai notare, mi rendo conto di quanto ci siano momenti in cui non ascolto musica e in cui il silenzio è proprio necessario per me. È come se avessi bisogno di un respiro, di uno spazio vuoto che mi permetta di ricaricarmi. Il mio fidanzato, per esempio, ascolta musica ad altissimo volume anche prima di andare a dormire, ma io non ci riuscirei mai. Se devo ascoltare qualcosa, preferisco suoni ambientali o magari dischi strumentali, che tra l’altro ho cercato molto negli ultimi anni. Mi rendo conto che vado a momenti: per lunghi periodi alcuni dischi diventano i miei migliori amici, mentre in altri ascolto solo il suono della pioggia che cade.

Anche tu campioni qualcosa?
Sì, tantissimo. Anche nel disco ci sono dei tappeti sonori che provengono da registrazioni fatte con il mio telefono durante delle gite nei boschi. Quel tipo di suono, naturale e non artefatto, mi permette di creare una connessione profonda con l’ambiente e con il momento in cui l’ho registrato. È un po’ come catturare un frammento di realtà e questo poi arricchisce la musica.

Chiuderei nel modo più logico: come sta la musica femminile in Italia?
Penso che sia un ottimo momento. C’è una grande affinità con alcune artiste, come Emma Nolde, pur facendo cose molto diverse. Poi c’è Giorgia Lamante, Gaia Morelli, Meg, Joan Thiele, La Niña… potrei continuare per ore! Queste anime artistiche forti, con la loro personalità e originalità, meritano di avere uno spazio nella scena musicale. Tutte queste anime artistiche forti meritano di avere un proprio spazio nella scena perché ci sono troppe cose identiche e tanta musica che esce ogni settimana rendendo difficile distinguere, selezionare e dunque lasciar emergere. Ma sono fiduciosa, la qualità troverà sempre il suo pubblico, è solo una questione di tempo.

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