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Tutti gli album dei Pearl Jam dal peggiore al migliore

Trentatré anni dopo “Ten”, i Pearl Jam continuano a raccontare meglio di chiunque altro la loro fragile e tragica America quotidiana: il meglio e il peggio della loro discografia in studio

C’era una volta Seattle e la sua scena musicale invidiata da tutto il mondo: “Everybody loves our town” cantavano nel 1992 in Overblown i Mudhoney. È in questo calderone noto come grunge che si inserisce la vicenda dei Pearl Jam, band nata dall’incontro fra Jeff Ament e Stone Gossard con l’istrionico Eddie Vedder, un chicagoan trapiantato a San Diego. Aggiunti all’equazione i termini Mike McCready e Dave Krusen quelli che brevemente sono stati i Mookie Blaylock sono pronti ad azzannare i palcoscenici mondiali grazie soprattutto all’estro di Vedder; uno che sa incantare le folle con la sua voce spigolosa, chitarra acustica alla mano, sia con gesti stravaganti come le selvagge arrampicate sui tetti dei palcoscenici oppure gli stage diving di Lollapalooza. Il suo carisma ha permesso alla band di gestire la complicata transizione agli anni Duemila, consentendo ai Pearl Jam di continuare a raccontare ancora oggi in maniera appassionata la loro fragile e tragica America quotidiana. 

12. Riot Act

È il disco più politico dei Pearl Jam, risente (e come non potrebbe?) della tragedia dell’11 settembre e se la prende con George Bush (Bu$hleaguer). Can’t Keep, Save You e Love Boat Captain costituiscono una grande overture. Al top anche You Are con la sua chitarra distorta (probabilmente il brano più sperimentale del disco) e Thumbing My Way in cui Vedder sembra vestire i panni di Bruce Springsteen in Tunnel of Love. L’ultimo posto della lista deriva dal fatto che Riot Act è probabilmente l’album che inaugura la spirale discendente dei cinque di Seattle. Un album arrabbiato ma la cui ispirazione appare ben lontana da quella che aveva animato i precedenti album.

11. Dark Matter

Presentato da Eddie Vedder come il loro miglior album, Dark Matter non riesce a raggiungere le aspettative. Sebbene la band dimostri una solida coesione e abilità tecnica, nel loro ultimo capitolo discografico prodotto da un certo Andrew Watt (Post Malone, Ozzy Osbourne, Dua Lipa e Rolling Stones) manca quell’elemento di innovazione che li ha contraddistinti nel passato. Da segnalare però due ottime tracce, River Cross e Dance of the Clairvoyants, che mostrano quella profondità emotività che solo la voce di Eddie Vedder è in grado di trasmettere.

10. Gigaton

Gigaton è un album che ha diviso gli appassionati, scatenando convinti apprezzamenti o decise bocciature. A sette anni di distanza dal lavoro precedente in Gigaton c’è molto rock. Solo alla quinta traccia (Alright) assistiamo alla prima frenata di un album fin lì piacevolmente frenetico. Non torneranno più le accelerazioni di Who Ever Said, Superblood Wolfmoon o lo straniante sound (basso e tastiera) di Dance of The Clairvoyants, ma c’è ancora spazio per il soave arpeggio di chitarra della ballata Buckle Up o per l’acustica Comes Then Goes. Un album nel complesso sicuramente più coerente del suo predecessore ma probabilmente anche privo dei suoi picchi.

9. Lightning Bolt

Un album tutto up and down. Nella seconda categoria figurano l’hard rock un po’ banale di Lighnting Bolt e Let The Records Play come anche il brano Mind Your Manners, che strizza l’occhio a Motörhead ed Iron Maiden ma che appare notevolmente fuori contesto. Sugli scudi invece il potente open Getaway la perla Sirens, che nelle intenzioni della band non a caso doveva «suonare simile ai Pink Floyd», ma soprattutto il perfetto trittico finale Sleeping By Myself, Yellow Moon e Future Days, acme emotivo di un album rollercoaster.

8. Binaural

Il primo disco del millennio significa letteralmente “a due orecchie” e fa riferimento al metodo di registrazione impiegato per la creazione dell’album che ha il fine di ottimizzare il suono per il suo ascolto in cuffia. Binaural dipinge atmosfere alla Pink Floyd e ci accoglie con il punk di Breakerfall e God’s Dice. Poi c’è spazio per un susseguirsi di brani garage rock e brani lenti; un’alternanza che sarà evidente anche negli album successivi. Nel frattempo, Eddie Vedder, sempre più deus ex machina della band, dimostra di saper fare la differenza anche semplicemente strimpellando un ukulele (Soon Forget).

7. Pearl Jam

Pearl Jam o The Avocado Album, com’è stato ribattezzato per via della sua copertina, segna i quindici anni di distanza dal loro fortunato esordio. Come stanno allora i Pearl Jam? Dopo gli stranianti Binaural e Riot Act, Pearl Jam segna in parte un ritorno alle sonorità delle origini ma definire questo album solamente retrospettivo sarebbe sbagliato. Pearl Jam infatti è un altro pugno nello stomaco dopo Riot Act. Da digerire questa volta c’è l’elezione presidenziale del 2004, quella che ha riconfermato al timone George W. Bush. Dominano le chitarre e la voce di Vedder, il riferimento sono gli Who ed i Ramones. Meno sperimentazione più rock & roll è la formula di un disco che rimane a metà del guado, più accessibile dei suoi due diretti predecessori ma inevitabilmente lontano dall’ispirazione che ha guidato gli album degli anni Novanta.

6. Backspacer

Molte sono le analogie che lo legano al precedente “album dell’avocado” anche se Backspacer dimostra di avere una marcia in più. L’overture potente si spinge fino alla quarta traccia dell’album. Fantastica The Fixer, opera del batterista Matt Cameron, molto meno convincente appare invece la successiva Johnny Guitar. La tripletta Just Breathe, Amongst the Waves e Unthought Known è probabilmente l’apice musicale toccato nel XXI secolo dalla band di Seattle, ballate che dimostrano quali vette (è del 2007 il pluripremiato intermezzo solista del front-man Into The Wild) l’ormai sempre più onnipresente Vedder è in grado di toccare. C’è ancora tempo per un po’ di rock & roll e per la sofferta carezza finale The End, un brano che sembra risentire non poco dell’ispirazione di Into the Wild.

5. Yield

Bastano pochi secondi di Brain of J. per capire che l’ultimo album della band prima dello scoccare del Nuovo Millennio è un ritorno al futuro. Abbandonate le peculiarità di No Code, Yield è un disco rock & roll. La distanza degli esordi si fa comunque sentire e MFC, Given to Fly e Faithful sono probabilmente i frutti migliori di questa nuova visione del rock sviluppata dalla band. La delicata Wishlist esalta il timbro inconfondibile di Vedder che in questo album lascia, come mai era avvenuto prima di allora, spazio agli altri membri della band nella composizione delle liriche. Il congedo All Those Yesterday’s, oltre che essere una citazione dei Beatles, è un’inconsueta e destabilizzante chiusura da 7 minuti e 40 del disco. I magici Novanta sono alle spalle, di fronte c’è l’incognita degli anni Duemila.

4. No Code

Superati i trent’anni i Pearl Jam, che nel frattempo hanno perso Abbruzzese (sostituito da Jack Irons ex-RHCP) sentono la necessità di scrollarsi di dosso il passato. Lo fanno recuperando quella melodia che si era persa in Vitalogy, offrendo al pubblico un disco dal sound morbido ma al contempo irrequieto. Risuona praticamente in ogni traccia un senso di selvaggia libertà ed è presto chiaro il debito che l’album paga al folk rock di Neil Young in primis ma anche al “Boss” Springsteen (Off He Goes). Un album meno appariscente dei suoi illustri predecessori, poco Pearl Jam per i puristi, ma un disco che, come il vino buono, migliora a distanza di tempo ad ogni nuovo ascolto.

3. Vitalogy

Quando esce Vitalogy i Pearl Jam sono la rock band più popolare del pianeta. Difficile proseguire nel solco dei primi due album e allora, superato il rischio di un loro prematura divisione, coraggiosamente, Vedder, Abbruzzese e soci decidono di cambiare. Lo fanno nascondendo le “classiche” melodie come Nothingman e Better Man in mezzo ad una selva di pezzi duri e viscerali. Il punk alla Dead Kennedys di Spin the Black Circle, le urla rabbiose di Vedder che canta di come il suo tavolo sia troppo piccolo per ospitare discografici avidi e media ingombranti (Not For You) e un brano come Corduroy che diverrà un classico dal vivo. Il dettaglio di una scatola di sigari sul pavimento descritta in Immortality ci ricorda che da otto mesi Kurt Cobain non c’è più. Vitalogy può essere considerato lo spannung musicale della band di Seattle.

2. Vs.

Fuori Rick Parashar dentro quello che diverrà il produttore di riferimento della loro carriera, Brendan O’Brien. La seconda fatica dei cinque di Seattle (Abbruzzese sostituisce Krusen) è probabilmente anche quella più introspettiva. Dopo il successo planetario dell’esordio la pressione di dover bissare quella vetta è enorme. La band si sente schiava del successo, come la pecora che infila il suo muso in una rete che campeggia in copertina. Vs. oscilla fra la rabbia furiosa stile Go e Animal, momenti più calmi e riflessivi (Daughter, Rearviewmirror, Leash) e i primi brani sperimentali della band, la polemica W.M.A. e le bizzarre atmosfere di Rats. La conclusiva Indifference è invece una sorta di bignami delle doti canore di Vedder. Pearl Jam did it again.

1. Ten

Pietra miliare del rock. Non importa che voi siate del partito Nirvana, Soundgarden o Alice in Chains. Ten è un album di debutto perfetto. Scordatevi le contaminazioni punk della band di Kobain o le incursioni metal degli Alice in Chains, il sound di Ten strizza l’occhio agli anni Settanta ed è lontano mille miglia da ogni moda. Ten ti accoglie con la feroce Once; è il celebre videoclip di Jeremy, la cavalcata rock alla free bird Alive, la rabbiosa ballata Black, le chitarrre Zeppelin di Ocean; è la mistica e delicata preghiera rivolta dall’ex surfista Vedder al padre scomparso (Release). Un’opera pura ed incazzata che travolge l’ascoltatore un colpo dopo l’altro.