In natura esiste una farfalla, la Greta oto, meglio conosciuta come “glasswing butterfly”, le cui ali sono trasparenti. Questo tratto non è solo una meraviglia estetica, ma un meccanismo di sopravvivenza. La trasparenza le permette infatti di confondersi con l’ambiente, rendendola quasi impossibile da catturare oltre che splendidamente unica. Ecco, i Fuera sembrano avere lo stesso dono – mostrarsi senza mai rivelarsi completamente, costruendo attorno alla loro musica un’aura di mistero che non è strategia, ma parte della loro identità stessa. Le ali invisibili che sembrano avere questi tre artisti sulle spalle non sono altro che i loro mondi complessi e personalissimi (che abbracciano la musica ma anche le arti visive). Elementi apparentemente inconciliabili possono trovarsi accanto, all’interno di un loro disco, e poi mescolarsi, risuonare e dare luogo a qualcosa di inedito ed affascinante. Con Sonega Sonela, i Fuera ci consegnano un album che non è un semplice esercizio di stile, ma una vera esperienza sensoriale, dove techno, glitch, ambient e raggaeton si intrecciano per raccontare frammenti di vita e riflessioni sull’essere e sull’apparire. In questa intervista, ci portano dietro le quinte del loro mondo: un luogo in cui fragilità, ricerca artistica e desiderio di invisibilità si incontrano per creare qualcosa di unico.
Qual è il vostro primo ricordo legato alla musica? E quale invece l’ultimo ascolto che vi ha folgorato?
Jimmy: La primissima immagine che mi viene in mente è un mix tra i vinili di mio padre (che da giovane era stato un gran digger) e il CantaTu con cui facevo concerti con mia sorella fin da bimbo. Come ultimo ascolto folgorante ti direi l’ultimo album di Oneohtrix Point Never.
Mike: Ricordo un viaggio in auto con la mia famiglia, guardavo la strada scorrere dal finestrino con in sottofondo Sultan Of Swing, una delle preferite di mio padre. L’ultimo folgorante ti direi un dj set di Yanamaste a Milano.
Dizzy: Il mio primo ricordo è legato a mia madre, da piccolo mi portava ai suoi concerti, scriveva canzoni mentre io la osservavo di nascosto, affascinato, e mi portava con sé in studio di registrazione. È stato inevitabile lasciarsi travolgere. Recentemente, uno degli ultimi ascolti che mi ha colpito è El Morabba3, El Mokhtalifeen.
Ho amato molto Sonega Sonela, così in questi giorni ho provato a descriverlo ad alcune persone che secondo me lo apprezzeranno alla follia ma mi sono reso conto di non essere stato in grado di verbalizzare correttamente cosa sia e come realmente sia fatto questo disco. Voi come lo spieghereste a qualcuno che non può ancora ascoltarlo?
Jimmy: Premesso che è sempre difficile voler spiegare la musica, penso sia un album piuttosto variegato e divertente dove ciascuna delle nostre ispirazioni ha cercato un suo spazio, dalla techno più contemporanea al raggaeton passando per rap, ambient, glitch. Lo abbiamo immaginato come il risultato di una fioritura tanto attesa che finalmente esplode.
Dizzy: Sonega Sonela sono due particelle subatomiche libere e incontrollabili, un po’ come un fotone o un neutrino. A chi non l’ha ancora ascoltato, direi che è un album che non si può spiegare facilmente, bisogna lasciarsi attraversare.
Avete coltivato l’estetica del non mostrarvi troppo, infatti i vostri scatti spesso tendono a mettervi sullo stesso piano degli oggetti all’interno della scena. È un modo per coprirvi dal mondo esterno?
Seguiamo principalmente il nostro gusto e la necessità di creare una dimensione ideale dove poter collocare noi e la nostra musica. Più che mostrare i nostri connotati e basta, ci interessa provare a restituire un’atmosfera e un mood estetico.
È possibile scomparire anche se si vuole fare una carriera in cui il contatto con il mondo esterno sembra essere indispensabile?
Sicuramente molto difficile, ma dipende molto dal tipo di progetto. In ogni caso è possibile non diventare schiavi del comparire.
Quando è stata l’ultima volta che vi siete sentiti completamente fuori posto, e come avete reagito?
Non saprei, capita piuttosto spesso. Abbiamo reagito probabilmente chiudendoci più del dovuto.
Come sperimentatori, immagino abbiate sviscerato linguaggi musicali di ogni tipo. Avete mai avuto paura durante delle sessioni di scrittura e produzione di diventare una versione di voi stessi che non vi rappresenta?
Certo, ma stiamo sviluppando un’elasticità che ci renda rappresentabili da un mondo musicale sempre più vasto. Se troviamo la quadra per un album che viene poi pubblicato, vuol dire che in quel momento ci sentiamo rappresentati.
Qual è stata la cosa più difficile da tradurre in musica o parole, e cosa vi ha spinto a provarci comunque?
Spesso ci ritroviamo a esporre delle fragilità. La cosa più difficile è rimanere fedele a se stessi anche nei momenti in cui si è in conflitto.
Cosa c’è nel vostro Spotify Wrapped?
Hummus di ceci, curry e mango.
C’è mai stato un momento in cui avete sentito che l’arte, invece di aiutarvi, ti stesse consumando?
Ottima domanda, probabilmente fa parte del gioco saper apprezzare entrambe le parti.
La vostra musica, ma in particolare questo disco, mi risulta molto emotivo ma allo stesso tempo tecnico e ricercato. Qual è la vostra composizione percentuale di testa e di cuore – ossia, parafrasando, dedizione e talento?
Non saprei ma ci siamo sicuramente divertiti, non sta a noi definire il nostro talento. C’è tanta dedizione.
Siete molto attenti all’ecosistema visual. Mi raccontate cosa è stato Fueraroom e che ruolo ha l’esperienza multi sensoriale nel vostro progetto?
Fueraroom è stato il primo esperimento in cui proviamo a portare nel mondo fisico la nostra “stanza”, uno spazio mentale che rappresentiamo in più modi praticamente dall’inizio del progetto Fuera. Grazie al lavoro del nostro team siamo riusciti ad allestire un luogo dove far convivere i suoni, le immagini e la tecnologia che definiscono il nostro immaginario.
La scelta di rifugiarvi in altre lingue è una vostra cifra stilistica. Cosa vi spinge verso questa direzione? È un atto di fuga, una forma di protezione, o piuttosto un modo per esprimere parti di voi che in una singola lingua non trovano spazio?
L’utilizzo dello spagnolo è stato fondamentale per raggiungere degli orizzonti creativi che ci sentivamo di non riuscire a definire in italiano.
Foto: Lorenzo Bonanni
Digital Cover: Jadeite Studio
Coordinamento redazione: Emanuele Camilli
Ufficio stampa: Margherita De Francesco, Flavia Guarino
Thanks to Monksta