In un certo senso, anche ora, alle 11:30 del mattino, mentre sto per chiamare al telefono i quattro musicisti – Edoardo, Emanuele, Laura e Simone – con cui passerò la prossima mezz’ora, siamo tutti avvolti dalla notte più profonda. Mi spiego meglio: il nostro pianeta è immerso in onde elettromagnetiche che i nostri occhi e il nostro cervello traducono in quella che comunemente chiamiamo luce, ma la verità è che viviamo costantemente nell’oscurità, dall’origine dei tempi. E se intervistare i Manila alla luce del Sole poteva sembrare poco coerente – visto che hanno appena pubblicato Tutta la notte, brano edito da Needa e Atomo World e distribuito da Virgin Music – ora so che la musica può illuminare la nostra conversazione proprio come i nostri occhi illuminano il buio.
Il tema della notte è ricorrente nell’arte e nella musica. Per voi, che avete scritto un brano che si intitola proprio Tutta la notte, cosa rappresenta questo momento della giornata: un rifugio, una liberazione, o qualcosa di completamente diverso?
La notte è come un’altra dimensione, è una parte della giornata dove tutto è diverso, le emozioni sono amplificate e le regole vengono meno, ci si lascia andare. I protagonisti della canzone, grazie alla notte, si sentono liberi di evadere e di creare il loro mondo, senza badare a niente e a nessuno, un po’ come dice Jacques Prévert in una sua celebre poesia.
L’equilibrio tra componenti pop-rock e sonorità elettroniche sembra raccontare una certa tensione tra la tradizione e la modernità. Come vivete questo dialogo tra passato e futuro nella vostra musica?
Il rock è divenuto un genere molto ibridato, il suo flirt con l’elettronica è diventato quasi inevitabile negli anni. La parte divertente è che spesso “litighiamo” nello discutere sulle parti di una canzone dove prevale di più il synth rispetto alla chitarra e viceversa ma alla fine riusciamo a trovare quel compromesso che fa amalgamare bene il brano. Noi puntiamo sul fatto che questo dialogo tra rock ed elettronica continui ad accompagnarci a lungo perché è fondamentale per la nostra creatività.
A tal proposito: quali sono i progetti musicali che più hanno segnato la vostra vita e che si riflettono maggiormente nei vostri lavori?
Una nostra grande fonte di ispirazione è Cesare Cremonini, il suo modo di comporre ci manda fuori di testa, un pop veramente “colto”. Poi noi nasciamo come “garage band” quindi inutile evitare di dire che siamo partiti dalle grandi band del rock come i Lynyrd Skynyrd e i Cure.
Scrivere e suonare in una band significa condividere idee e sensibilità. Come riuscite a trasformare le differenze personali in una forza creativa?
Cerchiamo di mettere insieme le buone idee e di valutarle con il contributo di tutti. Nelle band i conflitti tra le personalità differenti sono all’ordine del giorno ma alla fine finiamo per confrontarci tutti diplomaticamente il più delle volte.
Restando su questo tema, è evidente che le contaminazioni sonore nella vostra musica siano un alternarsi continuo tra individualità e collettività. Quanto la vostra musica è il frutto del vostro essere insieme e quanto, invece, è espressione di singole voci che si incontrano?
Noi abbiamo trovato il nostro punto d’incontro nel nostro genere. Il rock è da sempre il genere che ci ha ispirato di più ed è quello che ci riesce meglio, magari qualche input può arrivare da una singola persona ma diventa poi inevitabilmente materiale comune a tutti. Sul rock melodico in generale è dove ci siamo trovati di più.
Qual è il valore più importante che cercate di preservare, come individui e come artisti?
La coesione. La partecipazione di tutti è ciò che ci appaga di più quando riusciamo ad avere il nostro materiale completo tra le mani, l’essere democratici ci rispecchia molto.
Esiste un’emozione che trovate particolarmente difficile da tradurre in musica? E perché?
Per noi forse l’allegria, a livello di sound riusciamo anche a rappresentarla abbastanza, a livello di testo forse un po’ meno, abbiamo paura di sfociare nel banale.
A Tenco chiesero: «Perché scrivi solo canzoni tristi?» e allora lui rispose: «Perché quando sono felice esco». Voi pensate che il dolore sia una condizione necessaria per creare qualcosa di autentico?
Non per forza, il dolore forse è più facile da rappresentare rispetto all’allegria ma può non essere facilmente una condizione autentica, diciamo che forse a volte si va un po’ troppo nell’esasperazione emozionale tipica del teatro.