Il mondo si deteriora quotidianamente sotto i nostri occhi. E vediamo l’uomo diventare sempre più prepotente non solo nei confronti della natura. Anche tra noi vediamo bruttezza, degrado e perdita dei confini di un futuro che non ci è mai apparso delineato, ma che sembra ormai destinato a essere sempre più fatiscente, dai contorni sfocati e quasi impercettibili. Tutto questo, e non solo, è raccontato con ironia cinica e disincantata dai Post Nebbia nel nuovo album Pista nera. Un disco che segna l’ennesimo passo avanti di una delle band più interessanti del panorama alternativo italiano. Un progetto in cui abbiamo voluto scavare attraverso le parole di Carlo Corbellini, leader del gruppo. E quella che è uscita non è un’intervista “semplice”, ma un dialogo che tratteggia non solo gli elementi fondamentali dell’album, ma anche un futuro grottesco, sempre più incerto, al quale dovremmo guardare più attentamente di quello che abbiamo fatto fino a oggi.
Ascoltando Leonardo mi è venuto in mente La settimana bianca di Emmanuel Carrère. Non so se lo hai mai letto, ma mi ha riportato lì. Perché partire da qui?
Non lo conosco, riferimento involontariamente azzeccato. L’idea è stata di Giulio (Patarnello ndr.), perché avevamo questa strumentale e per aprire il disco così, senza nessun espediente narrativo, devi proprio sentirti un figo. Così, ha avuto questa idea giustissima, che dà ambientazione visuale del disco, ma anche lo smarrimento come sensazione e l’infanzia come idea di benessere e presupposti per il futuro da rivedere in età adulta.
In copertina c’è questa foto del tuo bisnonno e ho apprezzato la contrapposizione tra immagine del passato e un album che guarda al presente e al futuro.
Quella foto ha un sapore molto distante dai pezzi, però per me funziona proprio perché c’è una vertigine. Parliamo di una foto degli anni Trenta, che racconta un mondo che magari non era un gran posto, ma c’erano ancora tante vette da scalare, metaforicamente e non. Tra l’altro la foto mi è arrivata perché mio zio ha digitalizzato tutta una serie di negativi e ci ha regalato un hard disk a Natale. Una coincidenza, perché stavamo per andare in studio per iniziare a lavorare all’album e dovevamo ancora decidere che direzione prendere anche graficamente. La foto era in bianco e nero, ho provato a colorizzarla con uno di quei siti online marcissimi, ed è venuta benissimo. Ho pensato: “questa foto è gratis, bellissima, ed è giusta per il disco”.
Pista nera suona autentico a livello di produzioni. Un aspetto che penso rispecchi anche quello che volete comunicare con questo nuovo album.
Questo è il primo disco che mi sono preso in carico di fare come produttore e che registriamo effettivamente in studio. Ho cercato di complicarmi la vita il meno possibile ed è venuto fuori un progetto molto organico e naturale, la volontà che c’è dietro al suono è quella di fare qualcosa che fosse cucita intorno alla band e pensata per essere suonata live, che è la vera dimensione del disco secondo me.
E avete già pensato a come portarlo dal vivo?
Abbiamo suonato di recente alla festa della nostra etichetta a Padova, abbiamo proiettato dei visual e sarà tutto molto minimal, ci concentreremo sulla nostra presenza sul palco (le prime date nei club sono state già annunciate) . Ci lavoriamo da un anno e mezzo, vogliamo spaccare tutto e basta.
Nella title track del disco dite “dammi un minuto e mi trasformerò nel sogno finto che tu hai di me”.
L’ispirazione dietro questo pezzo sono i luoghi oggetto di overtourism, che arrivano ad assumere le sembianze del ricordo e dell’impressione che si fanno le persone. In montagna vedi tanto questa cosa. In particolare frequento un posto in Friuli, che non ha l’architettura dell’Alto Adige, ma siccome la montagna per i turisti è diventato questo si sta imponendo l’architettura bavarese, super finta, che sembra uscita da Il signore degli anelli, mega trash e che non ha nulla a che fare con la tradizione del luogo. C’è questa tendenza a diventare la fantasia che le persone hanno per vendere.
Si potrebbe fare un discorso simile con Venezia. Milano, sorprendentemente, anche se è piena di turisti dà una sensazione più autentica.
Venezia l’ho frequentata molto in questi anni ed è proprio un laboratorio interessante. Appena scendi in stazione ci sono i butta dentro dei ristoranti che ti parlano con la voce di Super Mario e ti dicono “buongiorno, signorina, spaghetti?”. Ed è surreale, perché ovviamente gli italiani non parlano così, e ti fa capire la prostituzione dei luoghi a che punto è arrivata.
In Notte limpida dite invece: “Alla fine della pista cosa c’è, un modo per risalire e farla in un modo diverso o solo un lurido parcheggio”. Ho immaginato una sorta di futuro in cui poi, però, ritorni in qualche modo al punto di partenza, oppure arrivato alla fine del percorso trovi qualcosa che ti aspettavi fosse diversa.
Anche qui ritorna l’immagine sciistica. Tu sei mai stata a sciare?
Una volta, da bambina.
Non è esattamente una cosa amichevole nei confronti dei boschi. Però è interessante, perché quando arrivi ai parcheggi delle piste solitamente fanno schifo, con la neve che diventa una fanghiglia. Hai questo impatto industriale in una situazione così bucolica. A me piace chiudere i dischi con qualcosa che richiami la morte, lo trovo potente e metaforico. Un disco è quasi intuibile come una vita, e volevo una chiusa, un po’ disimpegnata, che trattasse morte e rinascita, con l’idea di “dove andiamo a finire”.
Non vorrei che risultasse banale questa domanda, ma ti spaventa la morte?
Di brutto. Diciamo che ho un rapporto complesso con la morte. Non ho avuto una formazione religiosa, quindi non ho dovuto abbattere un’idea che avevo per arrivare a una concezione più materialista. Condivido con te un ricordo d’infanzia: ero in seggiovia con mia madre, le ho fatto una domanda su questo argomento e lei mi ha spiegato «guarda, tu sei un assemblamento di piccole particelle che esistono da milioni di anni che si sono riunite in te in un momento e poi vanno altrove». Per me è una cosa molto poetica e nella mia visione spirituale non richiede narrazioni ulteriori. Nel disco precedente la morte era un tema molto più centrale, in questo invece ci ho pensato meno, ma la trovo una cosa di cui dobbiamo riappropriarci.
In che senso?
Trovo che se avessi il fegato per farlo, se non facessi musica, mi piacerebbe provare a fare funerali laici. Mi interessa molto, perché è davvero impossibile pensare veramente alla morte e prefigurare, trovo che ogni manifestazione architettonica e iconografica sia un tentativo limitato, ma è comunque interessante e mi ha sempre affascinato molto.
Abbiamo toccato, parlando, il tema ambientale. Al di là di tutte le manifestazioni che vediamo, giuste o sbagliate che siano, è un argomento sentito o di facciata?
Sento di averne parlato da un punto di vista molto personale. Ho sempre avuto il privilegio e l’opportunità di poter sciare e non è scontato. Col tempo, anche per il fatto che c’è meno neve, ho smesso di andarci. Il tema climatico è assurdo perché è surreale pensare che si spianino i boschi per creare delle strade per andare su e giù, quando una volta ti portavi gli sci in spalle e ti dovevi guadagnare la discesa. Detto questo, ho avuto molti pensieri riguardo al pezzo, perché poi effettivamente tutto quello di cui ti ho parlato ha fatto sopravvivere posti per anni. Chi vive in montagna non guarda romanticamente al posto in cui vive, a differenza di noi cittadini, ma lo guarda come un luogo che deve sfruttare per sopravvivere. Lo capisco, è pragmatico e risponde a un’esigenza ovvia. Credo ci sia un grande conflitto da questo punto di vista. L’idea di diminuire l’impatto dell’uomo è un argomento su cui bisogna riflettere, non buttarlo lì a caso. Noi siamo qui perché abbiamo bullizzato la natura e imposto il nostro volere e non dobbiamo mai staccarci completamente da tutto questo perché sarebbe una visione ingenua del problema.
In Statonatura dite: “Voglio vedere quelli della Bicocca che divorano a bocconi quelli della Cattolica”. Questa ti chiedo di spiegarmela.
È un pezzo che nasce di fronte a tutta la questione bitcoin, criptovalute ed economia decentralizzata. C’era un periodo in cui un botto di gente, quando suonavamo a Milano, che aveva fatto economia o management, veniva a proporci cose riguardanti le criptovalute. A me l’idea di base fa incazzare, trovo che sia un modo un po’ cannibalistico di continuare a sfruttare questo sistema economico invece di provare a oltrepassarlo e trovare qualcosa che sia meno “suicida”. A vedere tutto questo accrocchio dove si riesce a ciucciare soldi con il nulla mi viene un enorme desiderio di vedere le persone che si sbranano a vicenda. Comunque, è un brano pensato per essere cazzone e divertente, con alla base l’idea di arrivare alla fine e vedere tutta la complessità ridursi a un livello più basilare e animale possibile per abbattere qualsiasi sovrastruttura.
Sono stupita da quello che mi hai raccontato.
Adesso succede molto meno, fortunatamente. E questa cosa uccide un po’ l’ecosistema che sta intorno alla musica e deriva da un’ottica, secondo me sbagliata, che i musicisti devono essere anche imprenditori. Sono dell’idea che ci siano persone che devono fare alcune cose al posto nostro, perché non siamo fatti per fare tutto ed è giusto che la musica sia un ecosistema di persone che si aiutano.
Poi già lo stesso concetto di band vuol dire fare qualcosa insieme ad altri, e non da solo.
La musica, che tu la faccia di lavoro o no, non la puoi fare completamente da solo. Non esiste che ci arrivi così, ci sarà sempre qualcuno che, in modo o nell’altro, ti aiuta ad arrivare dove vuoi.
Sempre in Statonatura dite: “Si fa di tutto per sopravvivere nello stato di natura, la sua forma più pura, in cerca di una cura per la peggior sciagura capitata alla natura che tu volevi manipolare e che ti mangerà”.
È il pezzo scritto fino a ora in cui sono più Savonarola. Ho pensato tanto alla sua pubblicazione, perché c’è un discorso sull’arroganza, sulla conquista e l’appropriazione che ci porta a un muro contro cui ci andiamo a scontrare. Anche in Piramide c’è un discorso analogo, con questi personaggi malvagi che governano nel caos. Vedo molta arroganza e tanta bruttezza, anche in politica, con personaggi che trent’anni fa sarebbero finiti in galera e oggi invece prendono posizioni pericolose.
Mi sembri non dico pessimista, però non guardi in maniera positiva al mondo.
Sono dell’idea che abbiamo tante distrazioni e siamo anestetizzati rispetto a delle cose gravi che ci circondano. Dobbiamo reimparare a provare disgusto e ho provato a metterlo in questo disco, che non vuole avere una funzione “terapeutica” per qualcuno, ma mettere di fronte a quello che ci succede intorno.
Foto: Riccardo Michelazzo
Digital Cover: Simone Mancini – Jadeite Studio
Coordinamento redazione: Emanuele Camilli
Ufficio stampa: Giulia Zanichelli, GDG Press
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